lunedì 7 dicembre 2015

Ricordi di un europeo

Breve articolo su "Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo", autobiografia di Stefan Zweig.
Di Elena Tosato, rilasciato sotto licenza Creative Commons - attribuzione, non opere derivate, non commerciale.




Il mondo di ieri



Quando Stefan Zweig si suicida, nel 1942, ha appena terminato di scrivere un’autobiografia, un testo meditato e intriso dei ricordi di un europeo, ossia il libro che rimarrà il suo lascito postumo all’umanità e che si chiama - significativamente - Il mondo di ieri. Ormai sessantenne, una vita di cosmopolitismo innato e radicato poi tramite l’istruzione e la frequentazione di altri intellettuali europei, Zweig non è più in grado di reggere la messe di notizie disgraziate che la seconda guerra mondiale gli porta. L’Europa in cui ha creduto gli si sta disintegrando fra le mani, e a più riprese l’autore viene colto dall’inquietudine di non aver saputo leggere in tempo i segnali della tragedia: “Cresciuti nell'idea del diritto, credevamo all'esistenza di una coscienza tedesca, europea, universale, ed eravamo convinti che ogni eccesso di barbarie fosse tale da abolirsi da se stesso una volta per tutte di fronte all'umanità. Poiché io qui tento di mantenermi equo quanto mi è possibile, debbo dichiarare che tutti noi nel 1933 ed ancora nel 1934, in Germania ed in Austria, ogni volta non ritenemmo possibile neppure la centesima, neppure la millesima parte di quanto invece poche settimane successive portarono con sé. [...] È chiaro: tutti gli orrori, come i roghi di libri, le gazzarre attorno alla berlina, che pochi mesi dopo eran fatti reali, apparivano un mese dopo la salita al potere di Hitler, ed anche a persone di ampie vedute, eventualità inconcepibili. Il nazionalsocialismo, con la sua tecnica di inganno senza scrupoli, si guardò sempre dal proclamare l'intero radicalismo delle sue mete prima di avervi allenato il mondo. Questo era il loro prudente metodo: una piccola dose seguita da una piccola pausa, poi un'altra dose. Una pillola ed un momento d'attesa, per vedere se non era stata troppo forte, se la coscienza mondiale tollerava quel dosaggio. Ma poiché la coscienza europea - a danno e vergogna della nostra civiltà - ostentava con grande zelo la propria indifferenza, sin che quelle violenze avvenivano "oltre confine", le dosi si fecero sempre più forti, ed alla fine ne fu rovinata l'Europa intera.”

Zweig è un biografo, sebbene la sua produzione letteraria abbia spaziato in vari campi, dalla drammaturgia al giornalismo passando per la poesia, e all’apice della sua carriera è uno scrittore famosissimo in tutto il mondo. In quanto biografo è anche studioso di storia, e non può quindi esimersi dall’interrogarsi sul ruolo della storia nelle vicende umane. Non si arriverà, con lui, alle lunghe e attente disamine sul senso della Storia che Tolstoj mezzo secolo prima concentrava, soprattutto nel didascalico finale, nelle pagine di Guerra e Pace; tuttavia, operando da studioso, deve comunque porsi il problema, il problema di vita reale e non solo di finzione romanzesca, se lo studio della storia aiuti effettivamente a pensare a lungo termine, e quanto la conoscenza di un argomento implichi la possibilità di prevederne gli sviluppi.
Allo scoppio della Grande Guerra Stefan Zweig, poco più che trentenne, ha già una formazione cosmopolita. Ha viaggiato per il mondo ed è diventato amico degli intellettuali dell’epoca, da Hesse a Rodin, e in special modo si lega a Romain Rolland. La sua istruzione deve molto alla cultura ebraica - la sua famiglia fa parte della buona borghesia ebraica cosmopolita che anima la vita viennese - e alla varietà di culture che popolano l’impero asburgico prima della sua frammentazione, ben più che a quanto apprende a scuola, luogo che invece lo annoia e del quale percepisce l’angustia intellettuale. Quando, dopo la guerra, vede l’Austria come “un tronco mutilato”, propone insieme all’amico Rolland di essere coscienza civile dello spirito europeo. Il suo obiettivo è l’unità intellettuale d’Europa e la partecipazione di un’Europa unitaria al consesso mondiale: “Non si deve seppellirsi in un passato morituro, ma partecipare alla sua rinascenza.”

Alla necessità della nascita di questo spirito partecipano numerosi fattori. C’è la crisi morale e ideologica scatenata dal conflitto mondiale e dalle assurdità militari, che si vedrà riflessa in letteratura in titoli come Addio alle armi di Hemingway, allora ancora in procinto di diventare generazione perduta, come Niente di nuovo sul fronte occidentale di Remarque che sconterà le successive accuse di disfattismo; o ancora i primi lavori di Brecht o Il Buon soldato Sc’veik di Hašek - che pure, a conti fatti, nasce come carattere negli anni antecedenti al conflitto. Ci sono le considerazioni preoccupate sulla conferenza di Versailles del 1919 fatte da un interprete d’eccezione quale John Maynard Keynes, che osserva la miopia delle risoluzioni: “Clemenceau vede le cose in termini di Francia e Germania, non di umanità e di civiltà europea in cerca di un nuovo ordine”; e, lamentando la scarsa propensione a scendere a compromessi ammannendo, in loro vece, una serie di arzigogoli retorici, chiosa: “Al che si cominciò a tessere la rete di sofismi e di esegesi gesuitica destinata infine ad ammantare di insincerità il linguaggio e la sostanza dell’intero trattato.” [1]  Del piano del presidente americano Wilson, Zweig stesso nota: “La sua idea era conferire libertà ed indipendenza alle piccole nazioni, ma egli aveva giustamente riconosciuto come tale libertà ed indipendenza non potessero esistere se non nell'ambito di un legame ad unità superiore di tutti gli Stati piccoli e grandi. Non creando questa organizzazione superiore, questa effettiva e totale Società delle Nazioni, ma mettendo in atto l'altra parte del suo programma, l'indipendenza dei piccoli Stati, si produsse, invece che pacificazione, nuova tensione. Nulla è infatti più pericoloso della megalomania dei piccoli, e prima cura dei piccoli Stati fu infatti, appena messi al mondo, intrigare l'un contro l'altro e disputarsi piccoli lembi di terra.”
Ma la linfa a cui attinge è antica: c’è ancora, tra i padri dello spirito europeo sognato da Zweig, Rolland e altri, il lascito illuminista; c’è la filosofia positivista, che pure vivrà feroci crisi già dai primi anni del Novecento; c’è il pacifismo giuridico di Immanuel Kant che prevede una civitas gentium estendibile a tutti i popoli del pianeta, posto che si voglia ragionare sui temi del diritto internazionale, sull’istituzione di strutture sovranazionali e sul mutuo riconoscimento dei cittadini del mondo. [2]

Zweig, cantore dei vinti e del loro spirito superiore da lui descritto in biografie come quella di Erasmo e di Geremia, dalla metà degli anni Trenta vede banditi in Germania i suoi libri. Tutto attorno a lui collassa. Assiste alle tempeste dell’inflazione in Austria e Germania, descrivendo quello che chiama “il tradimento del denaro”, e assiste parimenti al crollo della fede nell’autorità e della legge morale così come era stata declinata in un mondo che si reggeva sugli equilibri tra grandi imperi. Dopo il disfacimento bellico assiste a quella che viene concepita una sorta di “età dell’oro per tutte le stravaganze”, al sorgere anche pirotecnico di ideologie e comportamenti messi in atto come protesta e sovvertimento sociale contro “il mondo di ieri”, quello che con la Grande Guerra ha tradito i suoi figli e li ha portati alla mutua distruzione. Ci sono le avanguardie, c’è l’esplosione vitale della creatività artistica. Ma non c’è solo l’arte a risentire dei cambiamenti, e l’aria nuova non sempre è fresca. Zweig assiste all’incupirsi della situazione economica e sociale, al lento svuotamento interno della democrazia, alla miseria che comincia ad attanagliare la classe media, alla paura degli effetti prolungati della depressione, alla ricerca di sicurezza sociale, al progressivo discredito di una classe politica vista come inetta e compromessa, al deflagrare di quello che Jeffrey Herf [3] successivamente chiamerà modernismo reazionario, al crollo di fiducia nella democrazia rappresentativa il cui valore veniva più e più volte (invano) sottolineato dal suo connazionale Hans Kelsen [4]. E, infine, si trova inerme e finalmente consapevole dinnanzi al dispiegarsi inarrestabile della tragedia. Anche allora lo scrittore, il cosmopolita che sta per diventare apolide, non si stanca di ragionare. Che cos’è l’Europa? Che cosa è stata, cosa deve diventare, quali sono le sue potenzialità? L’asilo in Svizzera e i suoi frequenti contatti precedenti con la confederazione elvetica gli suggeriscono un’idea di Europa pacificata e federata. Riecheggiano le parole di Victor Hugo al Congresso della Pace di Parigi nel 1849, una riunione in cui si parlava di arbitraggio internazionale, di disarmo e della possibilità dell’istituzione di un congresso delle nazioni: “Verrà un giorno in cui voi – Francia, Russia, Italia, Inghilterra, Germania – tutte le nazioni del continente senza perdere le vostre qualità distinte e la vostra gloriosa individualità, vi fonderete in modo stretto in un'unità superiore, formerete in modo assoluto la fraternità europea così come la Normandia, la Bretagna, la Borgogna, la Lorena e l'Alsazia – tutte le nostre province – si sono unite nella Francia. Verrà un giorno in cui non vi saranno campi di battaglia al di fuori dei mercati che si aprono al commercio e degli spiriti che si aprono alle idee. Verrà un giorno in cui le pallottole e le bombe saranno sostituite dai voti, dal suffragio universale dei popoli, dal venerabile arbitrato di un grande senato sovrano che sarà per l'Europa ciò che il Parlamento è per l'Inghilterra, ciò che la Dieta è per la Germania, ciò che l'assemblea legislativa è per la Francia! Verrà un giorno nel quale l'uomo vedrà questi due immensi insiemi, gli Stati Uniti d'America e gli Stati Uniti d'Europa, posti l'uno di fronte all'altro, tendersi la mano al di sopra dell'oceano...”[5]

Ma le contingenze della storia, quando Zweig si trova a rifletterci sopra, sono ormai quelle che sono. Amareggiato e senza speranze, decide che il suo tempo è passato. Muore prima degli embrionali tentativi europeisti del secondo dopoguerra, muore quando il Terzo Reich sembra ancora inarrestabile. “La più intima missione, quella cui per quarant'anni avevo dedicata ogni energia del mio convincimento, la pacifica federazione dell'Europa, era andata in rovina; quello che io avevo temuto più che la mia stessa morte, la guerra di tutti contro tutti, era ormai scatenata per la seconda volta e colui che per tutta un'esistenza aveva appassionatamente operato per la fraternità dell'animo e dello spirito umano a quell'improvvisa esclusione, si sentì, nell'ora che più di ogni altra esigeva indissolubile comunanza, più inutile e solo che non fosse mai stato in sua vita.”
Visioni come la sua hanno un andamento carsico e ricorrente nella storia d’Europa. A volte si rinvigoriscono, a volte sembrano così lontane e perse.




[1] J.M. Keynes, Il consiglio dei Quattro, 1919, in Sono un liberale? 1931, 1933, the Royal Economic Society e 2010, Adelphi
[2] I. Kant, Per la pace perpetua, 1795; Feltrinelli 1991
[3] J. Herf, Reactionary Modernism - Technology, culture, and politics in Weimar and the Third Reich, Cambridge University Press 1984
[4] H. Kelsen, Essenza e valore della democrazia, Giappichelli, 2004
[5] V. Hugo, Discorso inaugurale alla conferenza di pace di Parigi, 21 agosto 1849, reperibile online in originale e in traduzione.


Tutte le citazioni di Stefan Zweig sono tratte da: S.Zweig, Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo, Mondadori, 1994

martedì 1 dicembre 2015

Verba volant, scripta pure

Consigli per chi volesse scrivere un bestseller

- saga adolescenziale scritta con un vocabolario di trecento parole
- saggio di un professionista dell'indignazione su tema a scelta (chiesa, potere, libero mercato)
- cento motivi per cui non dovreste mangiare carne
- e altri cento per cui nemmeno il pesce
- ricette della tradizione comprendenti carne e pesce
- biografia di Papa Francesco
- romanzo scritto da una donna che parla del fatto di essere donna
- romanzo scritto da un uomo che parla del fatto di essere un uomo che si rapporta con la donna che parla del fatto di essere donna
- romanzo scritto da un omosessuale che parla del fatto di essere omosessuale
- romanzo scritto da un italiano di seconda generazione che parla del fatto di essere un italiano di seconda generazione
- romanzo scritto da un italiano di antica discendenza italica che parla di come si sente davanti all'italiano di seconda generazione
- i nostri amici animali
- curatevi con l'omeopatia
- romanzo scritto da un giovane precario che parla del fatto di essere un giovane precario
- romanzo di un anziano precario che parla del fatto di essere un anziano precario
- saggio di un economista sulla decrescita felice
- saggio di un economista sulla crescita esponenziale
- biografia di Papa Francesco che si rapporta a Eugenio Scalfari
- pamphlet sui mali dell'Occidente
- apologia delle virtù incontrastate dell'Occidente
- romanzo scritto da una donna omosessuale italiana di seconda generazione musulmana che parla del fatto di essere eccetera
- fantasy con un tocco di cyberpunk
- indagine tipo Report ma scritta con un po' di parolacce che fanno tanto gergo del popolo pasolinianamente malcompreso
- biografia di Papa Francesco, in versione graphic novel
- comunque, un graphic novel
- giallo con ambientazione storica documentata ma non troppo
- considerazioni sul tempo che fugge e sulla vacuità della giovinezza (solo se siete Marcel Proust o Michele Serra)
- romanzo comprendente un po' di sesso patinato, un po' di psicanalisi da rotocalco, un titolo vagamente ispirato a misticismi orientali
- altro che non vi dico perché vorrei tenermi per me una possibilità di sbancare il mercato
- romanzo che parla di come scrivere un bestseller tacendo l'ultima possibilità di sbancare il mercato


e non vi preoccupate perché comunque tra sei mesi nulla di tutto ciò sarà più ricordato. 

giovedì 12 novembre 2015

Aspirapolvere

Aspirapolvere


Ricorda i nomi parlanti delle commedie di Plauto. Tipo i personaggi, per dirne una, della Mostellaria: Filolachete, amico della sorte, Tranione, la trappola. L’Aspirapolvere entra in questo modo nel mio immaginario e diventa un personaggio vero e proprio, con la sua personalità, i suoi vizi, le sue speranze e la sua propensione all’azione incontrollata e convulsa che lo renderanno protagonista di incubi e leggende non meno che di solenni pulizie del pavimento.

Che poi, ci si chiede, che cos’è un nome. Quella che chiamiamo rosa anche con un altro nome non avrebbe un altro profumo, dice Giulietta costernata, e qualche secolo appresso ci si mettono i soliti filosofi a disquisire, cara Giulietta, c’è distinzione epistemologica e anche logica tra un nome proprio, che ha come significato l’oggetto che denota, e un nome inteso come descrizione ossia come espressione denotativa. Il che ha aggiunto complessità al mio rapporto con l’Aspirapolvere, ma l’immediatezza della sua forza evocatrice non ne è stata sminuita. E anche Romeo è rimasto Romeo e si sa che fine ha fatto.
Ma non perdiamoci in questioni secondarie. L’importante è che l’Aspirapolvere ora fa parte degli strumenti narrativi indispensabili, è concepibile attraverso la lettura del mito e della fiaba. Diventa così un oggetto iconico e un carattere. E questo è solo parte del problema. 

La funzione devastatrice dell’aspirapolvere è stata intaccata da Freddie Mercury che canta I want to break free 

e che ha desacralizzato, almeno a tratti, la pars destruens dell’orrido elettrodomestico, ma il problema non è stato eliminato.

C’è infatti da aggiungere la parte che riguarda il potere del mercato e delle sue leggi, la parte della persuasione anche occulta, della pubblicità, delle strategie di marketing, del subdolo tentacolo del capitalismo che si insinua nella quiete domestica attraverso i punti deboli dell’animo umano e che induce il consumatore alla fideizzazione coatta. Sì, insomma, la parte dell’aspirapolvere inteso come Folletto, e dell’ipercinetico ed entusiasta venditore che ne magnifica le sorti contendendosi il possesso del mio citofono con i dispensatori di posti numerati nel paradiso di Geova e con i melliflui sobillatori del mercato libero dell’energia a caccia di firme su contratti pieni di scritte piccole le cui copie, sono sicura, tappezzano le pareti delle Malebolge ("Noi ci partimmo, e su per le scalee / che n'avea fatto iborni a scender pria/ rimontò 'l duca mio e trasse mee / e disse: qui v'è l'Enel Energia", Dante, Inferno, XXVI, vv.13-16 o quasi); e lo fa scialando, al contempo, manciate non indispensabili di punti esclamativi e superlativi assoluti.

Io non lo voglio, il Folletto. Non voglio che mi fai una dimostrazione nel soggiorno, ce l’ho già un aspirapolvere, che poi il Folletto diventa anche l’emblema, non bastasse il fatto di essere un aspirapolvere, della comunità chiusa e settaria che non avrà altro aspirapolvere al di fuori di quello. 

Ma passiamo alla parte veramente terribile. Il rumore. Ora, sapete anche voi che il mugghiare disperato e infame di un aspirapolvere è quantomai vicino all’assenza di periodicità nel tempo e all’ampiezza costante su tutto lo spettro delle frequenze udibili dall’orecchio umano, ossia a quel che si dice rumore bianco. Il suo sputacchiare casuale di grida lancinanti è quindi, per me che sono alla costante ricerca sensoriale di schemi e sequenze e ordini, una sorta di sfida impossibile alla decrittazione, una tortura inesausta e senza morale, una condanna senza appello alla follia e al pianto.
Cioè, non facciamola così tragica: lo uso anche, l’aspirapolvere, ma per brevi periodi, tipo venti secondi, poi lo devo spegnere, fare una serie di respiri col diaframma, ommm ommm, quelle cose lì. E se lo sta usando qualcun altro, tendo a rifugiarmi nella stanza più lontana.

Ho scoperto che esistono su YouTube (non metterò il link) dei filmati il cui audio riproduce per tempi inusitatamente lunghi (mezz’ora, un’ora) il rumore dell’aspirapolvere. Dicono che serve per fare addormentare i neonati. Dicono che c’è anche gente che con questo tipo di rumore si calma. Si calma!
Secondo me se fate ascoltare un rumore del genere a un neonato quello vi cresce quantomeno imbizzarrito, ma è solo una mia impressione non suffragata da alcuna verifica sperimentale. Però io ve lo dico, ecco.

L’aspirapolvere in funzione, lancinante e morboso, sembra infatti aspirare l’intero universo. Rifugge dalle leggi fisiche solitamente intese per descrivere questo tipo di eventi anche se deforma lo spaziotempo circondandosi di un’ergosfera in cui è impossibile che io resti ferma e lasciando l’orizzonte degli eventi senza un filo di polvere. Per il resto è casuale, maligno, come certi allineamenti nei giochi di ruolo, e mi disturba dal profondo. 

Esso mi parla dei problemi dell’evoluzione della tecnica, della prospettiva della comparsa di un’etica nell’intelligenza artificiale e nelle macchine; esso è un severo monito che rievoca la volontà di potenza e la critica al positivismo; esso è uno stimolo narrativo (ancora!) a diramazioni distopiche e fantascientifiche. Esso scompagina la pretesa escatologica secondo cui polvere siamo e polvere ritorneremo, e per questo ne ammiro la forza. Il suo risucchio futurista, il suo clangore esacerbante, la sua pretesa bellica di igiene del mondo, però li rigetto. E tuttavia nel respingere un’impostazione reazionaria, antiscientifica, luddista e arcaica che vede nell’aspirapolvere una rappresentazione del fragore moderno e dell’inevitabile progresso mi sento a disagio.


Vivere è complicato.

giovedì 15 ottobre 2015

Altri emisferi

La mattina comincia con dei disturbi percettivi.

Gita alla Selva di Fasano in macchina con mia mamma, lei guida e io dico buca, buca con acqua. A un certo punto c'è un animale morto sulla strada.
"Oh, un gatto, poverino."
"Era una volpe."
"Con quelle orecchie a me pareva un gatto"
"Con quella coda? Era una volpe."
"Una volpe di quel colore grigio?"
"A me pareva rossiccio"
"Beige"
"Beige"
Animali misteriosi muoiono sulle strade di Puglia.

Arriviamo a destinazione e parcheggiamo. Fa un certo fresco, pioviggina, insomma quel tempo che comunica direttamente alla vescica e ti impera di trovare un bagno.
Ci fermiamo a un bar, ci sediamo a uno dei tavolini fuori, comunque siamo al riparo dalla pioggia, e ordiniamo un tè caldo (per me) e un espressino caldo (per mammà). Vado subito in bagno, prima che sia troppo tardi, e quando esco non c'è più mia madre al tavolino.

La vedo invece seduta a un altro tavolo insieme a una anziana signora.

"La signora è australiana e ha chiesto se possiamo fare un po' di conversazione."

Conversazione, penso io.

Mamma.

Conversazione con una persona sconosciuta, così, all'improvviso, su temi che non conosco, senza essere stata avvertita prima, mi colgono proditoriamente all'uscita del gabinetto, io pensavo di potermi rilassare, non ho nemmeno avuto tempo di prepararmi.



Poi penso che la signora è australiana. 
Quindi dovrò anche parlare in inglese.


Mi siedo, mi aggrappo alla tazza di tè, mi presento, shish, ho quella sensazione tipica e caratteristica di quando devo parlare con qualcuno facendo small talk, il cervello che lentamente si chiude, ti sembra di vederlo, un grumo di materia grigia e sorda in cui bivaccano manipoli di neuroni pietrificati, non riesco nemmeno a pensare oh povera me, oh Lord please don't let me be misunderstood.

La signora è in gita in Italia con un gruppo di altri anziani australiani, oggi il resto del gruppo è andato a Matera e lei è rimasta a Fasano perché non ne può più di vedere chiese e rovine, chiese e rovine, chiese e rovine.

Che si aspettava l'Australiana, cazzi e canguri, ma non dico nulla.

(pochissimi i canguri.)

Per fortuna mia mamma regge tranquillamente la conversescion e fa delle domande alla signora, e la signora fa delle domande a mia mamma e poi anche a me, e io rispondo, con la lingua impastata e il cervello sempre rigido e fermo. Mi verrà un attacco di asma? Non mi viene. Bevi il tè che passa tutto. Bevi. 
Poi del resto io non soffro di asma. Potrebbe venirmi un infarto.
Una angina pectoris.
Un aneurisma dissecante dell'aorta.
La signora chiede a mia mamma se ha altri figli oltre a me. "No" dice mia mamma.
"Oh, io ho due figli maschi. Mi sarebbe sempre piaciuto avere una femmina. Ho anche dei nipoti, ma non sopporto i bambini".
Forse questa signora australiana non è poi così male.

"Dispiace se fumo?"
"Nessun disturbo" diciamo noi.
"Sapete dove posso comprare un posacenere come questo?" chiede, riferendosi a quello che sta sul tavolino del bar.
Traduciamo al cameriere.
Il cameriere gliene regala uno.
L'anziana australiana bacia il cameriere.

Continua la conversazione, cioè, credo, ci sono la tizia e mia mamma che chiacchierano e io di tanto in tanto dico delle cose cercando di inserirmi quando mi pare di stare zitta da troppo tempo.
Morirò, lo sento.
Il tè è anche finito.
Forse potrei mettermi in bocca le fettine di limone.
E se poi mi viene acidità di stomaco?
Le lascio lì.

La signora ringrazia che le abbiamo fatto compagnia, intanto ci ha parlato del suo defunto marito, dei suoi viaggi in camper, del fatto che Bangkok è sporca e di sua sorella che a 75 anni lavora ancora, mentre lei a 73 no, e chiede se anche in Italia si mangia l'agnello. Poi ci salutiamo e se ne va.

Paghiamo le nostre consumazioni e facciamo due passi, nonostante la pioviggine (drizzle), io canto delle canzoni per riprendere contatto con me stessa e ripristinare il mio equilibrio interno, delle canzoni della mia infanzia, la bella pallina fuggita di mano oscilla vicino oscilla lontano. Cantare funziona. Potevo mica farlo mentre c'era la signora australiana. Chissà se conosce gli AC/DC? Non sembrava tanto più vecchia di Angus Young, per dire. 

Torniamo alla macchina.
"Guida" mi dice mia mamma, infliggendomi la definitiva pugnalata alle spalle della giornata. Cioè, io ho la patente, è stato uno dei traumi della mia vita, so guidare, ma non guido mai, è terribile, la macchina fa delle cose e poi ci sono anche le altre persone che fanno delle cose e non sempre sono prevedibili con largo anticipo, non è che te le comunicano scrivendo, che allora le capirei.
"Guida" ripete mia mamma, visto che io sono verdolina e tentennante.
"Devo?"
"Ma sì, fai un giro qui nel parcheggio."

Un giro nel parcheggio posso affrontarlo, penso. Premi la frizione, accendi la macchina, molla il freno a mano e metti la prima, parti. Faccio un otto nel parcheggio.
"Ho fatto un otto nel parcheggio" dico, con lo stesso tono di Dustin Hoffman in Rain Man quando dice "Sono un ottimo guidatore".
Che poi non era nemmeno un otto, era uno zero deforme.

Rimetto la macchina tra le strisce bianche, peraltro dritta, torno al sedile del passeggero e ce ne andiamo a casa, e io dico buca, buca con acqua.

Oggi pomeriggio mi prendo un bicchiere di grappa e poi mi metto a letto malata.


lunedì 5 ottobre 2015

La farmacia

Farmacia. Non la solita, che è chiusa per ferie, un'altra. Siccome c'è un po' di gente mi metto pazientemente ad aspettare che uno dei farmacisti si liberi. Mi preparo già con la ricetta e la tessera sanitaria e le uso per sventolarmi, giacché pare mica, ma fa caldo. Entra di lì a poco una anziana megera, le molli braccia burrose e trombotiche che traboccano di ricette, e mi passa davanti.

Le faccio gentilmente osservare: "Signora, qui tutti fanno la fila"
La vecchia scuote i bargigli stupita: "Ma no, qui non si va con la fila, quando si libera un posto si va" (naturalmente non me lo dice in modo così lineare: agglutina monconi di parole, li accatasta a prescindere dal loro posto sintattico)
La fisso per un istante con uno sguardo da videocassetta di The Ring e, mantenendo un encomiabile sussiego, ribadisco: "Ma io sono entrata prima di lei"
Al che la signora, scuotendosi tutta e sommergendomi con il fruscio delle sue ricette, se ne esce con: "Ah ma io l'ho vista qui e pensavo che stesse leggendo"

Immagino di avere un aspetto particolarmente intellettuale e blasé dal quale traspaiono le mie innumerevoli letture, ma porco di quel mondo che ruota incolpevole sotto i tuoi maledetti piedi di vecchia rincoglionita, secondo te una persona si mette in piedi in farmacia a leggere?
Che fai oggi pomeriggio? vieni a leggerti un libro in farmacia? No guarda, pensavo di andare al supermercato a farmi una nuotata.

Per cui rispondo.
"No, non stavo leggendo."
"Ah, capisco" (sempre agglutinando eccetera)
E si piazza sul bancone con la sicumera disperata di un ubriaco all'ultimo stadio, ripassandomi davanti se mai le fosse venuto in mente di accodarsi com'era giusto che facesse.
"A chi tocca?" fa la farmacista, che giusto in quel mentre si è liberata.
"A me" urlo, lanciandomi sul banco e atterrandovi sopra come un rugbista sulla linea di meta.
Mica s'è spostata, la vecchia. Ho dovuto brancicare la confezione di farmaci e pagare a fatica facendomi largo tra le sue molli braccia e le sue ricette.



P.S. Quella della lettura non è la scusa più bizzarra che io abbia sentito. Una quindicina di anni fa in ospedale un tizio cercò di saltare la coda dicendo "Sono andato a scuola col fratello di Giovanardi".

sabato 19 settembre 2015

Manuale di conversazione - download

<< Chi ero prima di parlare? Che cosa desideravo? Non mi è più dato saperlo e forse nemmeno mi interessa; non so se sarebbe utile per il manuale. Nei primi tempi della mia vita ero talmente poco interessata ai rumori del mondo che i miei genitori pensavano che fossi sorda. Devono essersi preoccupati parecchio. In realtà ci sentivo perfettamente e nulla, a parte forse la mia indifferenza, fece mai presumere che avessi qualche impaccio nello sviluppo fisico o cognitivo. 
Mia madre, che di suo ci si metteva a stimolarmi raccontandomi fiabe per ore e ore, era terrorizzata dal pensiero che potessi soffrire senza riuscire a spiegare il perché. Decise allora che avevo bisogno di un vocabolario adeguato e ci tenne a che imparassi il maggior numero di parole possibile. Avrei dovuto imparare per elenchi, lo so: sarebbe più conforme allo stereotipo di persona che si sta delineando di me, ma non fu così, e imparai con l’uso e l’abitudine. 
Era importante che conoscessi per bene le parti del corpo: che fossi in grado di spiegare a mia madre il tipo di dolore e la sua localizzazione precisa, cosa che paradossalmente mi sarebbe valsa il suo scherno un quarto di secolo dopo quando mi colse quel terribile mal di denti di cui ho parlato in precedenza. Avevo appena cominciato a non farmela più addosso che già ero in grado di identificare i termini di vescica, uretra, muscolo costrittore, perineo e sfintere e, tra gli altri, i concetti di bicipite, tricipite, stomaco, intestino, petto, gola, vie aeree superiori e inferiori, tarso e metatarso, carpo e metacarpo, naso, zigomo, e tutti i denti da latte che avevo in bocca. Tanto era l’orgoglio della conoscenza che non perdevo occasione per esibirla a qualsiasi adulto incontrassi, il che, essendo io figlia unica, si riduceva a correr dietro ai miei genitori e ai loro incolpevoli amici, ma per me voleva dire tutta l’umanità.>>


Manuale di conversazione (come essere molto nerd e vivere tutto sommato felici) è disponibile per il download:



[EDIT: link rimosso, il romanzo sarà disponibile su Bookabook]

lunedì 7 settembre 2015

Il Quattordici

Il Quattordici

Tragedia culturale in atto unico. 

Scena I
Personaggi: Deduzio, Arguzio.

Alla fermata dell’autobus. In scena c’è solo Arguzio, che aspetta con aria annoiata, guardando svagato qua e là.

Deduzio (arriva trafelato): Mi scusi, è già passato il 14?
Arguzio: tace e si ostina a guardare in aria.
Deduzio (schiarendosi la voce): A-hem. Mi scusi, il 14...
Arguzio (spazientito): sì, sì, ho sentito.
Deduzio: E... e quindi?
Arguzio: Definisca “il 14”. 
Deduzio (sorpreso): Be’, ma... l’autobus, io intendevo l’autobus.
Arguzio: e certo che intendeva l’autobus. M’ha preso per uno stupido?
Deduzio: Ma no! Che dice? E quindi? È già passato?
Arguzio: No.
Deduzio: Oh. Grazie. (Canticchia imbarazzato) È da molto che aspetta?
Arguzio: Vede, se le ho chiesto di definire “il 14” era perché fossimo entrambi certi di relazionarci allo stesso referente, ove il referente è determinato da un numero sufficiente di descrizioni di una data famiglia di concetti agglomerati. Converrà con me col sostenere che la certezza è una nozione epistemologica, e che è necessario che due interlocutori, quali noi siamo, si accordino preventivamente, se non tanto sul significato del nome “il 14”, quantomeno su ciò che ne determina il riferimento. Questo giusto per impostare il problema in maniera corretta.
Deduzio (piccato): Crede che non sappia che cosa vuol dire impostare correttamente un problema? Intendevo l’autobus numero quattordici, sa, il quattordici, sa cosa vuol dire: individuare gli attributi del ‘Quattordici’, astraendo dai dati, e individuare altresì le sue possibilità di azione, astraendo dalle sue funzioni...
Arguzio: Eh ma lei la fa troppo facile, signor mio. Mi pare che voglia venire a parlare di classi di oggetti, proprio a me, ah ah. Sappia che ho scritto degli articoli a riguardo. E già che si verrà poi a parlare di autobus, mi dica, mi dica se non andremo a indagare la contraddizione tra lo sviluppo delle forze produttive e lo stato dei rapporti di produzione, giacché l’autobus, estrinsecazione borghese delle necessità spaziali ed economiche del lavoratore, è esso stesso paradigma e fine dell’analisi dialettica della metodologia del traffico.
Deduzio: Mi pare che lei la faccia troppo complicata. Un autobus non è che un sistema meccanicistico emergente che si basa, in buona sostanza, su processi meccanici, chimici, elettrici e termodinamici. Fisici, per dirla in breve. E il suo muoversi nel traffico è altresì facilmente modellizzabile in termini di analisi delle reti e teoria dei grafi.
Arguzio: Ad un livello ontico, signor mio! Che mi dice dell’inevitabile sizigia semantica del campo fisico con quello metaconcettuale? L’autobus è un mezzo e come tale è un messaggio, indipendentemente dai contenuti informativi, nella fattispecie le monadi espressive dei singoli umani, che trasporta. Ci ha mai fatto caso? Immagino di no, se è rimasto (sprezzante) a pensare al bus nell’ambito della teoria delle reti. 
Deduzio: Uh, che paroloni. Ma mi dica, è da molto che aspetta?
Arguzio: Dica lei, dica, dica. Lei che ha sicuramente capito cos’è il tempo, signor mio, con tutta la sua scienza, dica se secondo lei è molto che aspetto.
Deduzio (vantandosi): Lei mi sfida, ma casca male. Potrei dirle, con sufficienza e sprezzo della sua ignoranza di umanista, che dipende dal sistema di riferimento, giacché non siamo più soggetti a dover pensare al tempo come un assoluto...
Arguzio: ...cartesiano, o un apriori kantiano, ma certo, lo so...
Deduzio: ...sì, ma cosa ne sa, realmente? Ne avrà sentito parlare da qualche epistemologo d’accatto. Non avrà sondato la natura del tempo che deriva dalla conoscenza delle strutture dissipative, parlando in termini di termodinamica, o delle possibilità di curvatura dello spazio-tempo; e sono paradigmi che poi si possono estendere per interpretare tutto lo scibile umano: la scienza, certo, ma anche l'etica, la politica, l'economia e l'eros, tutto esclusivamente seguendo formule algebriche e semplici - per me, beninteso - formalismi logici. Le sa, queste cose, lei? Certo che no! E non saprà nemmeno, lei che sta qui ad aspettare un autobus e non sa nemmeno dirmi da quanto, delle teorie che prevedono l’esistenza stessa del tempo come un epifenomeno, lei...
Arguzio (vantandosi di par suo): Ma mi faccia il piacere! Io studio me stesso nell’essere-qui, anzi, sa che le dico, lei non ha capito un accidente se non riesce a concepire l’esser-ci come un ente che è capace di interrogarsi sull’essere. Lei sta qui, aspetta l’autobus e non si pone il problema di come l’essere si rapporta all’esistere. Contento lei...
Deduzio: Mi tolga una curiosità: che lavoro fa?
Arguzio: Son filosofo, io. E filologo, esteta, profondo intenditore delle scienze umane. E lei, se mi posso permettere?
Deduzio: Logico e scienziato della scienza che fa la scienza vera.

Si guardano e si soppesano per un lungo istante, reciprocamente disgustati.

Deduzio: Oh, arriva un autobus.
Arguzio: Non si affanni. È il 9.
Deduzio: Ah. Allora non va bene.
Arguzio: Non va bene nemmeno per me.

Tacciono imbarazzati e continuano a lanciarsi occhiate di sbieco.

Arguzio: Ha mai notato che il 9 passa sempre prima del 14 anche se partono allo stesso orario? È che il 14 deve fare tutta via Roma, mentre il 9 taglia per corso Napoli. Se ne deduce che via Roma è molto trafficata.
Deduzio: Non sono per niente d’accordo; non sull’inferenza sul traffico in via Roma, che è ovviamente banale, anche perché se non mettono la rotatoria.... (spazientito) ma sull’analisi delle premesse. Ho infatti notato che il 9 passa prima del 14 soltanto il pomeriggio, mentre la mattina tendono ad arrivare insieme. Ho raccolto i dati e ne ho fatto una statistica, analizzando le possibili fonti di errore. Lei, come fanno al solito quelli della sua razza, ha sussunto delle ipotesi senza metterle al vaglio degli esperimenti.
Arguzio (sarcastico): Vuol farmi anche la lezioncina sui limiti, già humeani, dell’induzione?
Deduzio: Non ho tempo da perdere, signor mio.
Arguzio: Tanto meglio, nemmeno io. E se ci bada, non ho mai assunto, implicitamente, che le mie osservazioni sul traffico in via Roma, anche perché se non mettono un semaforo... (spazientito) che le mie osservazioni sul traffico in via Roma fossero estese a tutta la giornata.

Tacciono offesi.

Deduzio: Certo che il 14 si fa aspettare.
Arguzio: Ne convengo.
Deduzio: È che ho una certa urgenza di tornare a casa. La mia famiglia mi aspetta.
Arguzio: Ha dei figli?
Deduzio: Tre maschi.
Arguzio (raddolcito): Curioso! Anche io ho tre figli: un maschio e due femmine. Che età hanno i suoi?
Deduzio (impettito ma allegro): la somma delle loro età è 13, il prodotto è 36, e il minore ha gli occhi azzurri.
Arguzio: Oh, che buffo. Pensi che invece quando ho chiesto a mio figlio di dirmi se fosse vero che le sue sorelle erano entrambe maggiori di lui di un anno, ha risposto dicendo che stava mentendo.
Deduzio (ridacchiando): Eh, ma son cose di ragazzi.
Arguzio (ridendo a sua volta): Eh eh, sì.

Tacciono e scrutano la strada pensierosi.



Scena II
Personaggi: Arguzio, Deduzio, Uomo.

Arriva un uomo. Si avvicina all’orario delle corse, poi controlla l’orologio che ha al polso.

Uomo: Domando scusa...
Arguzio e Deduzio (in coro): Il 14 non è ancora passato.
Uomo (sorpreso e un po’ risentito): Ah. Be’, sì, grazie. Eh eh. 

L’Uomo si mette ad aspettare l’autobus in silenzio, un po’ in disparte rispetto a Deduzio e Arguzio. Apre un libro e comincia a sfogliarlo. Deduzio e Arguzio guardano l’uomo di sottecchi.

Arguzio (sottovoce, a Deduzio): Che sta leggendo? Ci vede fin là?
Deduzio (sottovoce): No, la copertina è nascosta.
Arguzio (sottovoce): Speriamo sia della buona letteratura. Dostoevskij. Joyce. Che dico? Musil. O della filosofia, o un saggio di antropologia.
Deduzio (storcendo la bocca, sempre sottovoce): Poveretto! Io leggo abitualmente la fantascienza. Oltre, naturalmente, a saggi di carattere scientifico. Il resto è, ne converrà, una noia mortale.
Arguzio (storcendo la bocca, sempre sottovoce): Non dubitavo dei suoi gusti, guardi.
Deduzio (soppesando la faccia di Arguzio, sempre sottovoce): Oh guardi, nemmeno io dubitavo dei suoi.

Tacciono schifati.

Uomo (agli altri due, forzatamente allegro): Certo che ce ne mette a passare, eh?

Arguzio e Deduzio sorridono imbarazzati e accennano a delle risposte di circostanza.

Arguzio: Così è la vita, caro signore...
Deduzio: Eh eh, non disperiamo...

Si spostano un po’ più in là, in modo da allontanarsi dall’uomo, che riprende a leggere il suo libro.

Arguzio (sospira): Vede? Questo è quello che succede quando ci si affida alla modernità e si fa della tecnica una divinità. 
Deduzio: Ma si riferisce all’autobus? 
Arguzio: All’autobus, certo!
Deduzio: Che sciocchezze.
Arguzio: Saranno sciocchezze per lei, ma già s’è visto dall’invenzione della ruota e, più tardi, dalla rivoluzione industriale. E andrà sempre peggio. Guardi, non gliela voglio nemmeno raccontare secondo i crismi della realtà che si fa ideologia o sulla constatazione della dissoluzione del soggetto, giacché lei - mi scusi, sa - non ha evidentemente le conoscenze dialettiche per soffermarsi su una analisi critica e metastorica delle storture del neoliberismo e del revanscismo tardo borghese che ha nel turbocapitalismo la sua sintesi più pacchiana e mortifera. Lei, nel suo vaniloquio inconsapevole fatto di trastulli positivisti che non è riuscito ad espungere dalla sua iconica Weltanschauung, non ha...
Uomo: Arriva...
Arguzio (all’Uomo): Non interrompa, lei. Dicevo (di nuovo a Deduzio), lei non ha coscienza della nostalgia per l’essere e della conoscenza incontrovertibile del vero. Lei si rotola nel fango soterico eppure soffocante di chi si illude di poter confondere gli scopi con i mezzi e fare di tutto ciò cultura e ricchezza dello spirito. Ma fosse solo questo! Quando la natura si ribella alla tecnica, le leggi della natura a quelle che noi abbiamo imposto...
Deduzio: Per carità, lei mi confonde il piano descrittivo con quello prescrittivo e pretende di insegnarmi il mestiere. No, guardi, sarò gentile, il fatto è che...
Arguzio: Il fatto! Ma sentiamo! Il fatto. Lei confonde fatti e interpretazioni e pretende di...
Deduzio: ...No, guardi, io questo non...
Uomo: Arriva...
Deduzio (all’Uomo): Zitto lei. (Ad Arguzio) Dicevo, secondo la logica, materia che lei evidentemente ignora, al di là di qualche facile sillogismo, secondo la logica che è chiave di lettura di ogni cosa, dal diritto a...
Arguzio (ridendo): Sì, certo... e il fato della ragione, ah ah...
Deduzio: ...lei non inquadra la comunicazione nel riferimento, che...
Arguzio: e lei non sa che il riferimento, secondo i propositi di sistematizzazione di...
Deduzio: ...la conoscenza quantitativa della...
Arguzio: ...la diegesi mitopoietica che lei propone è puerile e risibile...
Deduzio: ...non incorra nelle solite fallacie...
Arguzio: ...l’immanenza del...


Passa il 14. Si ferma.

Uomo (guardando titubante i due che continuano a litigare e a darsi sulla voce): Be’, è il mio. Arrivederci.

L’uomo sale sul 14.
L’autobus riparte. 
Arguzio e Deduzio lo lasciano sfilare, poi si allontanano, furenti, da parti opposte della scena.

Sipario.

martedì 28 luglio 2015

Nunc est moviolandum

Sono riuscita a recuperare la bozza del testo originale dell'inno della serie A scritto in quasi latino.
Poi è arrivato Allevi a rovinare tutto.


Nunc est moviolandum

Estote parati!
Adeste fideles!
Viri sunt in scaena!
Bello civili extra theatrum concluso, 
hilaris occinit populus; 
retores ubicumque excutunt in tabernis
omnes dubitantes an quattruor-quattruor-duo melium sit quam quattruor-tres-tres.
"Tu ne quaesieris, scire nefas
 utrum zona an homine nobis ludendum sit" 

Repente sibilus aerem quassat,
pila devolvit quia rotunda est;
ac si nobis est, ludimus, si eis, ludunt,
sic Boskovus dixit.
Sors immanis
et inanis
rotat pila volubilis.

Currit aggressor ad inimicam portam,
cavet cum peritia defensores,
solus est ad finem.
Tunc a tergo occultus defensor incumbit
simul vulnerans talum pilamque.
Delapsus aggressor multum gemit,
accurrunt sodales reclamantes.
Cum nihil occursum est, 
populus iustitiam invocat:
“Arbiter ab uxore prodite, 
tibi impone conspicillos! 
Quousque tandem abutere patientia nostra?
Committe maximam poenam atque expelle defensorem!”
Arbiter infidus tamen
imperat progressum.
Tempus fugit, ludus actus
et nos ovantes gradu festinemus.

Nunc est moviolandum.

venerdì 29 maggio 2015

Manuale di conversazione (stralci)

Stralcio da Manuale di conversazione, capitolo 10
(L'opera completa sarà scaricabile da questo blog dopo l'estate)

In questo capitolo la protagonista Irene Cardin racconta del suo primo grande amore analitico.


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Arrivò un’altra estate, un altro mare, e poi un altro anno scolastico. Per Francesco sarebbe stato l’ultimo, per me il terzo; fu l’anno in cui il professor Ganz, che a proposito di Francesco aveva una stima enorme, come tutti, pur insegnando in un’altra sezione, lasciò il liceo. La consapevolezza che in pochi mesi avrei dovuto combinare quello che non avevo fatto nei due anni precedenti mi riempì di confusione. Mutevole è il cuore umano a sedici anni: adesso da un lato sentivo che l’innamoramento si stava illanguidendo, e che forse Lui non era l’unico uomo sulla terra, anche considerata la sua predilezione a circondarsi di ragazze sciocchine, e dall’altro lato avevo però trovato nuovi paradigmi culturali per affrontare con Francesco un dialogo completo, una Vera Conversazione, che mi avrebbe permesso di sbaragliare l’indegna concorrenza e dare finalmente sfogo ai bisogni dei miei ormoni. I nuovi paradigmi culturali erano lo stilnovo e l’amor cortese, il che significa che forse non avrei dato davvero sfogo materiale alle mie impellenze, ma almeno lo avrei raccontato bene. E così mi immaginavo a dialogare, stesa nel letto nel cuore della notte, chiusa nella camera che s’alimentava del mio fiato silenzioso, con una sorta di spirito poetico che mi dava delle dritte sul sentimento e sulla sua corretta esternazione. Trascrivo un esempio, visto che questo è un manuale di conversazione e qui si tratta nei fatti del mio primo approccio sistematico al problema del dialogo amoroso.

Irene: Mi si rimescola lo stomaco, davvero. Dormo male. Vorrei trovare pace e mi chiedo se... ecco, non so nemmeno cosa mi chiedo.

Spirito Poetico: Ahi lassa Irene, che tutta ti struggi in pianto ed in pensiero! Quei che ti fugge vana gloria chiede, e senza pietade move al suol lo sguardo. Che una venenosa turba ti percuote, i’ so! 

Irene: Non riesco a descriverlo. È strano per me, è come se non trovassi le parole, come se non riuscissi a delimitare il campo. Parlo troppo tecnico?

Spirito: Ahi quanto so, mia misera, ch’è tutto un forsennato volere, un piacer crudele, che il cor pria che diletto non abbia a desiar che mercede.

Irene: Ma io soffro! Dimmi tu, che lo sai, che cos’è che provo?

Spirito: Questi è Amore! Amor, Irene mia; Amor, che di te vuol segnoraggio, Amor che del vero il lume t’ha conquiso, e che spessamente s’incarna in spietato messaggio.

Irene: Che cosa dovrei dirgli, ora? A Francesco, capiscimi. Come potrebbe mai accorgersi di me?

Spirito: Va’, sia pur con sembianza umìle, poi che tua fraile condizione seguitar non puote; e di’ che il tuo vano imaginare e le cose tue dubiose debbon cessare; che Lui t’ha chiamata in tuo nome, e quindi si convien che di voi si parli, e che la lingua tua parli come di se stessa mossa.

Irene: Sono belle parole, ma credi che davvero potremmo finire insieme, noi due?

Spirito: Ma certo! A tal proposito, Irene, sai che la parola insieme deriva, come tanta parte dell’Amore che ti canto, dal provenzale? Nella fattispecie, viene da ensems, essems, che si è formato dal latino in simul. Se ne trova un esempio nella Cronaca degli Albigesi, ove si dice E cavalgan ensems tant ergulhosament, che si traduce in E cavalcano insieme tanto orgogliosamente.  

Irene: Qual baldanza di saggio, che sola vertute stima il coraggio, e sol Amore stima Sapienza! Ma il tuo saper non vale a sanar l’infermitate che rende il mio core carne d’amore folle e mai scusato! Or va’, tu che se’ valente, ch’io m’avvedo ch’è tardi e vassene il tempo e non me ne avvidi.

Spirito: Ch’io qui mi parta, Irene, ben fia: piacciati di serbarmi in core le notti future.

Irene: Buonanotte anche a te. 

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Elena Tosato 2015, rilasciato sotto licenza creative commons 3.0 Attribuzione, Non Commerciale, Non opere derivate.

lunedì 13 aprile 2015

Matera

Colpi di tosse spaccata
di un polmone minerale
e questa fu la vita
si dice, d'uomini, acerba
e gutturale rivolta.
Tra le ossa del fico d'inverno
corre l'aria serena
e ciascuno per compito pone
le domande che sa concepire
e le sgrava sulla terra.
Esce un uomo dalle scorze del tempo
e borbotta deposto ai suoi figli
'cercate i confini del mondo'
e i figli son rivoli di domande
e sciami di sassi appesi
senz'ombra pensosa
o grandezza ridente
che scava la roccia
e incide furente il verbo.