mercoledì 30 marzo 2016

Appunti per un blockbuster (Batman, Superman, Yossarian, Švejk)

(il primo che prende questa roba sul serio vince un viaggio da Gotham City a Metropolis su un furgone hippy Volkswagen)


Il pezzo si può anche scaricare QUI in formato pdf.


Archetipi, eroi e antieroi, seppure formalmente divisi per ambientazione e contesto, si incontrano spesso nell’immaginario più impudico. Se avessi dovuto rappresentare la dialettica di due personaggi significativi per la costruzione della mia adolescenza, sarebbe finito su celluloide Karl Marx v Kurt Cobain; qualche anno più tardi, per puro amore della tribolazione psicologica, avrei sfondato i botteghini con la continuity dostoevskiana di Ivan Karamazov v Rodion Romanovič Raskol'nikov. Invece il mondo dell’immaginario cinematografico ammicca alla rievocazione di altre fanciullezze e di altre iconografie, promana cupo dalle intuizioni di Frank Miller, per cui tocca tenerci in sala Batman v Superman. Che poi, ti dici, sono due personaggi che meritano un certo rispetto. Prendi Superman, che ci ha scritto sopra perfino Umberto Eco: l’incarnazione dello spirito di potenza che vendica le frustrazioni dello spettatore alienato nella società delle macchine e dell'uomo macchina, epigono a fumetti di una lunga progenie che ha visto coinvolti - con presupposti diversi - Ercole, Sigfrido e Orlando, dotato di ogni possibile qualità fisica e morale, poiché è forte oltre ogni misura, veloce e scattante, può incenerire oggetti col solo sguardo come nemmeno un basilisco, ci sente meglio di un vicino pettegolo, ma è anche buono, umile, sempre al servizio del prossimo, e per soprammercato è pure bello. Se nello spettatore scatta la molla dell’identificazione con tale scialo di meraviglie è grazie all’alter ego che Superman si sceglie per muoversi tra gli umani, un giornalista timido e impacciato, miope, complessato e in balia delle ugge di Lois Lane, come un travet qualsiasi, come tanti di noi; Clark Kent si strugge in borghese per Lois Lane che è invece innamorata di Superman, per quanto possa essere realistico aspettarsi che una donna sia sessualmente attratta da un partner che sa già essere più veloce della luce.

Batman, homo faber rivestito di kevlar, è l’uomo mortale spinto da visioni prometeiche, è colui che porta sulla terra la techne e la usa a vantaggio degli umani; e, contemporaneamente, è personificazione dell'intelligenza del capitale. Se in Batman l’uomo echeggia il titano, Superman è praticamente un dio camuffato da uomo: kriptonite a parte, non può temere nulla. Batman è intelligente, ha capacità logico-deduttive, ha piegato a sé il potere della tecnica, ha un maggiordomo che incarna alla perfezione il ruolo del mentore, Chirone di quell’Achille, Obi Wan Kenobi di quel Luke Skywalker, non fosse che Batman a differenza di Achille e Luke Skywalker non ha doni naturali particolari, è un uomo fisicamente comune, per quanto arguto e in buona forma. Però Bruce Wayne è ricco. Non solo ricco, in verità: è ricco sfondato, è a capo di un impero economico. Come tale, può decidere che cos’è la giustizia e come farla funzionare; come tale, paradossalmente ma non troppo, fa scattare il desiderio di immedesimazione nello spettatore che in fondo non desidera una giustizia, ma aspira per sé a una ascesa sociale: Batman è l’orizzonte impossibile della media borghesia, di quella borghesia che ha cominciato a vedersi disegnata qualche secolo fa nei quadri fiamminghi e che, caduta e risorta a più riprese, stigmatizzata e invocata, ribalda e salvifica a seconda dei casi, lotta per una identità propria, per la definizione continua dei propri confini sociali, temendo il livellamento verso il basso, e per la costruzione di miti autonomi. Batman, di suo, si tormenta e si lenisce e, nel frattempo, tiene sotto discreto controllo la città. Come Superman, è orfano. Tragicamente orfano: a differenza di quanto capita a Superman la morte dei genitori di Bruce Wayne è la scaturigine della sua identità di eroe segreto e giustiziere, la fonte a cui si abbevera la sua inesausta sete di giustizia e di ordine, o forse di vendetta privata, di caccia ai propri demoni che a volte - ed è il pretesto delle sue avventure - si incarnano in personaggi grotteschi e surreali, nel ghigno di Joker, negli steroidi di Bane, nella notte eterna di Gotham City.

Come Superman, e come prassi consolidata degli eroi in costume, Batman opera in incognito, l’agnizione piena essendo lasciata come soddisfazione personale allo spettatore. Le condizioni dei due eroi sono però strutturalmente diverse: lo ricorda saggiamente David Carradine, cioè Bill, poco prima che Uma Thurman/Beatrix Kiddo gli spappoli il cuore a suon di ditate, Superman non diventa Superman, Superman è nato Superman; quando Superman si sveglia al mattino è Superman, il suo alter-ego è Clark Kent. [...] Clark Kent è il modo in cui Superman ci vede. E quali sono le caratteristiche di Clark Kent? È debole, non crede in se stesso ed è un vigliacco. Clark Kent rappresenta la critica di Superman alla razza umana.
Ed eccola, la critica alla razza umana e viceversa: il fatto che Superman sia Superman, e che Batman sia Batman, porta a inevitabili frizioni. In sintesi, Batman crede che Superman, essendo Superman, sia potenzialmente ingestibile e pericoloso. Un dio in terra, anche animato da nobili intenzioni, è di per sé una minaccia per l’umanità, alla sua autonomia di giudizio - benché essa si affidi volentieri a tutori immensamente potenti, a despoti illuminati se va bene, a qualche caudillo dalla mano svelta se va male, o a proiezioni oligarchiche della propria ambizione, munite di un sostanzioso apparato di propaganda, nella maggioranza dei casi. Non aiuta il fatto che Superman, di recente, abbia salvato una città (dal generale Zod) distruggendola. Troppo potente, va arginato in qualche modo. Non essendoci nel cervello dei supereroi qualcosa di assimilabile al concetto della divisione dei poteri, incarnando essi la summa parateologica dell’esecutivo e del giudiziario, e perlopiù anche del legislativo, Batman scivola nell’autocratico e onanistico (ma su tavola, e su schermo, funziona) ghe pensi mì.
Simmetria narrativa: a Superman, il candido, l’alieno, non aggradano viceversa i modi umani e troppo umani di Batman. Bruce Wayne è un animo tormentato, è un giustiziere, chissà come amministra la giustizia, secondo quali crismi, quali priorità, quali analogie con il suo impero economico e finanziario, lui uomo tra gli uomini, accecato da antichi lutti e potente per mezzo di una tecnica e di un patrimonio che lo rendono sì distinto dalla massa, ma non ontologicamente altro, non superiore, non esterno, ab Homine Vespertillone nihil humanum alienum esse puto, direbbe Superman se tra i suoi superpoteri ci fosse quello di aver letto Terenzio in qualche biblioteca di quartiere di Metropolis. 

***

C’è stato un momento nella storia del pensiero, a partire grossomodo dal diciottesimo secolo, in cui, basandosi su una supposta analogia tra fisica e morale, si è ritenuto che i valori positivi su cui si basa il comportamento umano, così come i principi fisici secondo i quali si muovono i corpi nello spazio, fossero necessariamente sussistenti tra di loro senza contraddizione. Secondo questa linea ogni questione inerente la morale e l’etica è fattuale, così come lo è per i problemi della meccanica; i fini ultimi dell’agire umano non possono entrare in conflitto tra di loro, poiché discendono da osservazioni sperimentali e ragionamento. In altre parole, la tragedia dev’essere un errore deduttivo, non esistono nell’armonia del mondo valori inconciliabili che entrano in collisione tra di loro. Ma l’analogia è falsa: sappiamo già dai tragici greci - e lo abbiamo imparato di nuovo in tempi recenti soprattutto ragionando sui confini del liberalismo, o prima ancora sullo scontro tra apollineo e dionisiaco in Nietzsche - che la tragedia, vista come scissione interna dell’essere umano, è inevitabile, e che valori diversi, pur se legittimi e inappuntabili qualora presi singolarmente, possono confliggere in modo insanabile una volta messi a interagire l’uno con l’altro. 
Anche la Giustizia, va da sé, cade in pieno nell’agone tragico. Lo fa almeno dai tempi di Antigone, eroina dell’omonima tragedia sofoclea costretta ad affrontare il conflitto tra l’autorità e il potere, a ragionare sull’essenza del nomos ma anche, per vie più sottili, a vivere le contraddizioni tra ciò che legittimamente pertiene al regno dei vivi e a quello dei morti, toccando quindi il tema dell’elaborazione del proprio passato: si giunge a parlare così dell’insensatezza dell’arbitrio, della nascita del diritto, del conflitto tra due leggi diverse, dell’esistenza o dell’inesistenza di una libera scelta che determina la possibilità di essere o meno innocenti nel proprio agire nel mondo, delle paure ancestrali dell’essere umano, questo essere “meraviglioso e tremendo”, e tutto accade per mezzo di un corpo conteso: di Polinice, nello specifico, e nostro, in generale. L’alba della giustizia che echeggia dal titolo di Batman v Superman pone dunque indiscutibilmente problemi identitari all’interno del singolo individuo.

E non c’è solo Antigone: altri problemi identitari li si ritrova nei turbamenti del giudice D’Andrea ne La patente di Pirandello, novella in cui il giudice è scisso, tragicamente, tra la necessità di dare corso al proprio ruolo, tutore della legge e difensore della razionalità, e la necessità di relazionarsi con un uomo che richiede che sia riconosciuta legittimità a una sua maschera irrazionale. Esempi se ne potrebbero trovare a manciate, ma quel che conta è soffermarsi sui problemi filosofici e politici che uno scontro sul concetto di giustizia può sollevare, e palesemente susciterà pensieri analoghi anche nello spettatore di Batman v Superman. Si può pensare alla giustizia come elemento del patto tra umano e divino, fra storia e trascendenza (per rilassarsi e restare dalle parti dell’Arca dell’Alleanza poi si può sempre guardare il primo Indiana Jones), così come ci suggerisce la lettura del Pentateuco, o del suo compimento evangelico con i susseguenti richiami alla grazia, o ci si può chiedere quale sia il ruolo della punizione divina nello sviluppo delle relazioni sociali e dei comportamenti umani all’interno del proprio gruppo. 
Più prosaicamente si possono affrontare questioni spinose di giustizia umana e di giustizia globale, pigliando di peso John Rawls e chiedendosi, insieme a lui: come può la giustizia generalizzare la nozione di contratto sociale come già concepito da Locke, Rousseau e Kant? E a proposito di Kant, come si stabilisce un legame tra il mondo della necessità naturale e quello della libertà determinato dalla volontà morale? Ancora: come si relaziona tale contratto sociale con una eventuale limitazione delle libertà personali? In che modo la struttura della società diventa oggetto e soggetto di giustizia? Qual è la natura e quali sono le origini del benessere? Possiamo fidarci dell’utilitarismo classico? Può farlo Batman? Può farlo Superman? Come si massimizza il bilancio delle soddisfazioni personali? Come è definibile oggi una funzione di utilità? Il problema della giustizia è qui affrontato in nuce; prima di esso abbiamo problemi ancora più fondamentali, ossia abbiamo uno scontro tra un buono (Superman) e un buono (Batman), perché è chiaro che sia l’uno che l’altro incarnano una certa concezione di bontà, una luminosa e una oscura ma non abbiamo mai seri dubbi sul fatto che sia Superman che Batman siano, ciascuno nella propria sfera di influenza, il “buono” della situazione. Cattivo è Lex Luthor, che infatti ha tutto l’interesse a vederli l’un contro l’altro armati piuttosto che coalizzati contro di lui. E quindi, che cos’è il buono? Cosa sono la realtà e la verità? Sono concetti completamente definibili? Come si percepisce la complessità del mondo attraverso filtri così riduttivi?

Ci ritroviamo Batman e Superman, insomma, costretti dalla propria natura a duellare e a farne una storia plausibile. Al netto della sospensione dell’incredulità la narrazione è un assoluto, e da bravo assoluto è un divenire regolato dalla dialettica; tra rutilare di effetti speciali, psicologia da rotocalco e dialoghi di virile cartapesta (epifenomeni che ascriviamo, sospirando, all’involuzione hollywoodiana di cui diremo tra poco) si dipana dunque lo sviluppo teleologico dell’io bifronte e muscolare di Superman e Batman. Nonostante l’arrivo di Wonder Woman come forza mediatrice e generatrice della sintesi di ciò che sarà poi l’embrione della Lega della Giustizia e, su imbarazzante calco spirituale di quest’ultima, di tutte le successive Coalizioni di Volenterosi nel mondo al di qua del fumetto, non cessano però le domande, inesauste e terribili: come si costituisce una teoria del bene, e come la si applica? come si compongono le esigenze della morale e quelle delle attitudini naturali? se l’azione comporta il dover affrontare sentimenti di invidia e diffidenza, come li si concilia con la giustizia? Come si relaziona la giustizia stessa con il bisogno umano di eguaglianza? Qual è il ruolo della razionalità e quale il ruolo degli istinti? E soprattutto: una volta elaborata una teoria organica della giustizia, come possiamo determinare se il sistema è stabile, o almeno metastabile? A quali sollecitazioni si può sottoporre il sistema, a quali è in grado di reggere e perché? Come intervengono Batman e Superman nella formazione di equilibri, e nel loro eventuale mantenimento? E noi, singoli esseri umani, dove siamo?

L’altra domanda capitale è: dove si svolge l’intera vicenda? Se il teatro fisico dell’azione è, in qualche unità di spazio e di tempo, un ibrido tra Gotham City e Metropolis, qual è invece il sostrato culturale e narrativo che fa da sfondo alla narrazione? S’è detto che il Superman e il Batman degli esordi, quelli nati per la DC Comics negli anni Trenta del secolo scorso, sono esempi della civiltà del romanzo: essa è distinta dalla civiltà del mito in cui si muovevano gli Ercole e i Sigfrido, nella quale ogni evento era già avvenuto e in cui l’eroe incarna esigenze universali. Batman e Superman riassumono le caratteristiche dell’archetipo e l’esigenza di incarnare aspirazioni collettive ma, al contempo, devono essere sottoposti a uno sviluppo narrativo che preveda una qualche forma di imprevedibilità. Combinando insieme gli elementi della saga e del feuilleton, entrano poi insieme in una dimensione ancora leggermente diversa, che è quella della civiltà della serie televisiva, ai cui dettami anche i film suppongono di doversi piegare, a costo di produrre sequel e derivazioni costruiti unicamente sulle permutazioni statistiche di pochi elementi base. In questo contesto si evolve la loro rielaborazione della morfologia narrativa derivata dal noto schema di Propp sulla fiaba; l’equilibrio iniziale viene rotto e ricostruito, anche in diverse condizioni, dopo una serie di peripezie e di capovolgimenti. Avventura dopo avventura, ciascuno dei due eroi riproduce se stesso: eternamente fruibile dalle masse, eternamente riproducibile in quanto personaggio, cerca comunque in quanto persona di essere irripetibile.

Sulla riproducibilità sequenziale del personaggio si basa la forza nascosta - neanche tanto nascosta - dell’operazione Batman v Superman: il marketing. Un film che spende per il marketing somme paragonabili a quelle investite nella produzione spiega meglio di un manuale le problematiche relative al feticismo della merce e alla reificazione dell’umano, incluso il finto umano proveniente da Kripton. Ogni avventura deve superare la precedente, dev’essere più eclatante, più rutilante, più appassionante, più potente, in una rincorsa cocainica alla dose minima, sempre drammaticamente crescente, in grado di eccitare lo spettatore. È qui che, come si accennava in precedenza, si concentrano le aporie della Hollywood contemporanea che consuma tutto fino a consumare se stessa. Il marketing conta più del prodotto finale, poco importa se il film sarà brutto o mal recitato, se ci saranno orrendi buchi nella trama o se i dialoghi sembreranno tagliati con l’accetta. Già Walt Disney ai suoi tempi diceva, grossomodo, che lui non faceva film per fare soldi, ma faceva soldi per fare film. Adesso il sospetto è che il film sia soltanto un pretesto e che si facciano i soldi per fare i soldi e, a questo punto, nel mio adolescenziale Karl Marx v Kurt Cobain l’Uomo di Treviri si gode il suo incontrastato momento di gloria e a quello di Aberdeen non resta che un ammirato controcanto: here we are now, entertain us.

***

In un tale eccesso di testosterone pugnace viene da sperare, almeno per una volta, di avere a disposizione un budget limitato ma sufficiente e ribaltare l’intera baracca, di creare un blockbuster che denunci l’assurdità dell’autocelebrazione dell’eroe fintamente problematico: qualcosa che richiami il Tersite del riscatto degli ultimi, sovvertitore del mondo aristocratico e dei relativi valori, come tratteggiato già da Concetto Marchesi nel saggio dedicato all’antieroe omerico per eccellenza e già affiancato ancora da Eco al Franti deamicisiano e al suo riso di rivolta sociale; qualcosa che sia pregno di una mordacità salace, per dire, sulla falsariga della satira sociale e militare di un dottor Stranamore. Lo sforzo inane, la tristezza tragica degli inadeguati, la tensione nel reinterpretare la realtà, la follia di soggiacere ai propri stessi inganni e la resa, finale, agli eventi, sarebbero oggetto di un fantomatico Don Chisciotte della Mancia v Cyrano di Bergerac (colonna sonora di Francesco Guccini). Ma si potrebbe andare ancora oltre. Un Capitano Yossarian v Soldato Švejk, buttiamo lì. Equivoci e assurdità, perché questa è la vita, sbilenca, e si trova nelle visite psichiatriche e nelle osterie più che negli eroismi da fanfara di uomini adulti con costumi attillati e ampi mantelli.
Yossarian e Švejk, emblemi dell’inutilità bellica, sono entrambi campioni delle loro rispettive strategie di sopravvivenza, in fondo, con cui si barcamenano in una guerra senza inizio e senza fine, identificata da un mero contesto storico - la prima guerra mondiale per Švejk, la seconda per Yossarian - ma in realtà iconica ed eterna, caotica, atemporale e ciononostante iperrealistica. 
Yossarian, ossessionato che degli sconosciuti cerchino di ucciderlo, ossessionato dall’inarrestabile aumento del numero di missioni da portare a compimento prima del sospirato congedo, Yossarian che diserta fuggendo in Svezia, nel guazzabuglio di una Pantelleria fittizia e improponibile cerca di dare un senso alla propria esistenza, di definire quali siano i suoi confini e le sue prospettive, muovendosi tuttavia in un universo che è già follemente deterministico - la follia è l’unica uscita razionale, stanti queste premesse, disertate è l’unico strumento in grado di resistere alla distruzione dell’umano e allo stato di persistente psicosi che lo contraddistingue. Boris Vian ci avrebbe cantato una canzone. Švejk al contrario, ingenuo ai limiti dell’idiozia, della caratterizzazione del folle innocente, è più che contento di trovarsi in dirittura del fronte: fronte che nessuno sa bene dove sia, in una geografia magica che deforma i territori orientali di quel che fu l’Impero Austroungarico fino a renderli terra del sogno, e in una routine micidiale che esalta il lato grottesco della guerra e dell’esistenza. Yossarian e Švejk si muovono in un mondo privo di scelte, governato da una giustizia che è assurda, kafkiana ma anche macchiettistica. Švejk è l’uomo trasandato e modesto, ormai in età, il quale a detta dello stesso Jaroslav Hašek “nemmeno s’immagina il proprio reale significato nella storia di questa nuova, grande epoca”, corpo grottesco che però, in qualche improvviso e brutale squarcio di realismo, riprende improvvisamente forma nella propria miseria e nel proprio dolore; Yossarian è il giovane capitano che si muove alla ricerca della propria pazzia in una danza macabra con la pazzia, totale e paralizzante, dell’esercito. Non possono essere in conflitto, per una grave incompatibilità delle loro figure con il concetto stesso di conflitto esterno, ma sono comunque in grado di sviluppare un discorso e una dialettica.



(Bozza della locandina)


Come ogni contesa epica che si rispetti ci sarebbe bisogno di un bel prologo in ottave che potrebbe cominciare così:

Volto che a ciascun ormai somiglia
si specchia nei risvolti di fortuna
e tale è la follia che lo consiglia
che a stento le sue membra si raduna.
Ma quanta immeritata meraviglia
cercare il proprio senno sulla luna!
Oggi pur qui, squassata l’atra terra,
dimette il suo pudor e va alla guerra.

È questi Yossariàn, recente ossesso;
e quei, “c’hanno ammazzato Ferdinando!”
è Švejk che di sé dice idiota e fesso,
di cani allevator di contrabbando.
Che il mondo è crudo e sempre amaro eccesso
bene lo sanno i due; e va allo sbando.
Ecco scostarsi l’uno a passi ebbri,
e l’altro paventar le prime febbri. [...]

(be’, sì, nel mio mondo solitario e stravagante questa roba farebbe parte di un film di cassetta, di intrattenimento magari un po’ scalcagnato e non necessariamente aderente a tutti i crismi dell’impegno civile, ma comunque di largo consumo, un blockbuster deve strizzare l’occhio alla facilità di fruizione e a tutti i parafernali del midcult. Nel mio mondo solitario e stravagante lo fa.)

Un simile pastiche è quasi improponibile - non basta la giustapposizione di personaggi, per quanto icasticamente descritti, per fare una trama - ma la sua introduzione serve per continuare a parlare dei temi sollevati dall’impostazione filosofica di Batman v Superman. E quindi, oltre ai già citati problemi riguardo la concezione di giustizia e di contratto sociale, quali siano le antinomie della società borghese, quali sia la natura delle minacce che possono arrivare a una città, se esse siano esterne o dovute a lacerazioni della coscienza sociale, a un conflitto e a una ricerca di ruoli, cosa siano legalità e illegalità in relazione agli accidenti storici, quali siano i fondamenti economici dell’ingiustizia, quale sia la differenza tra giustizia globale e giustizia internazionale, cosa si intenda per uso proprio della forza, per uso proprio della ragione; film dopo film, rappresentazione dopo rappresentazione, ci riempiamo così di personaggi e di azioni e di colpi di scena, in una bulimia narrativa volta unicamente al disperato, sempiterno tentativo di rendere appieno comprensibile, se mai lo potrà, la tragedia umana.





Elena Tosato, 29-30 marzo 2016
Attribuzione, Non commerciale, No opere derivate

lunedì 7 marzo 2016

La posta quantistica

Come saprete, l'algoritmo di gestione delle code negli uffici postali è misterioso e sottilmente beffardo. A seconda del servizio di cui si vuole usufruire si viene smistati in quattro raggruppamenti, che sono a loro volta riconoscibili da una lettera, a cui segue poi un numero progressivo. La lettera A è per chi desidera avvalersi dei servizi finanziari; E per i titolari Banco Posta; C per chi deve pagare bollettini e F24; P per i pacchi e i prodotti postali e per chi ha un amministratore di condominio che non risponde alle chiamate e per fargli fare riparare un danno condominiale sei costretta a scrivergli una raccomandata con ricevuta di ritorno in cui gli dici che se non si fa sentire entro una settimana gli mandi la lettera dell'avvocato. 

Se è ovviamente lecito dedurre che il cliente P001 verrà servito prima del cliente P002, poiché ciascun raggruppamento è bene ordinato, è difficile capire in che modo i numeri di un raggruppamento abbiano la precedenza su quelli di un altro: verrà servito prima E024 o P011? A033 o C019? potrebbe dipendere da questioni meramente arbitrarie come il numero totale degli utenti in ciascun raggruppamento, dalla velocità dell'impiegato allo sportello, da una qualche implementazione postale e malvagia della legge di Murphy. E allora tu stai lì, paziente, in coda, nella lenta transumanza degli altri utenti in coda come te, nel lieve e umido calore umano che comincia a evaporare da cappotti altrimenti odorosi di naftalina e vita vissuta, mentre rari avventori esterni si affacciano alla porta, guardano l'interno con una certa curiosità etnologica e poi decidono che ripasseranno più tardi. Ma tu sei lì, in coda, paziente, affidi il tuo tempo, le ore migliori della giornata, gli anni migliori della vita, a un algoritmo di dubbia consistenza, stringi tra le mani il biglietto col tuo numero, sapendo che quantomeno sei in un raggruppamento ben definito. 

E poi arriva, regolare e inevitabile, l'utente quantistico. L'utente quantistico è generalmente un pensionato che si potrebbe supporre scaltrito da anni in cui la fila alle poste era gestita, invece che dai biglietti col numero, dal livello di tracotanza e dall'agilità nell'insinuarsi tra gli altri, e si potrebbe altresì supporre che sia nostalgico di quei tempi arbitrari. 

Ma non è così facile. 

Egli infatti è perfettamente a suo agio nel concetto di fila ordinata, ma è anche consapevole del fatto che il servizio di cui vuole usufruire non è determinabile prima dell'osservazione: inferisce che esso sia descritto da una funzione d'onda data da una qualche combinazione lineare degli autostati degli operatori A,E,C,P (come precedentemente definiti), e quindi si avventa sul distributore dei biglietti e ne prende uno per tipo. 

Dopo essersi accertato che tutti abbiano visto quello che ha fatto si guarda prudentemente in giro, aspettando che il resto dell'utenza in coda approvi la sua conoscenza della meccanica quantistica, mentre in realtà il resto dell'utenza ormai intiepidita dall'altrui afrore aspetta, più che il collasso della funzione d'onda, il proprio. 

Infine si lamenta perché non lo fanno passare avanti.