Di Elena Tosato, rilasciato sotto licenza Creative Commons - attribuzione, non opere derivate, non commerciale.
Il mondo di ieri
Quando Stefan Zweig si suicida, nel 1942, ha appena terminato di scrivere un’autobiografia, un testo meditato e intriso dei ricordi di un europeo, ossia il libro che rimarrà il suo lascito postumo all’umanità e che si chiama - significativamente - Il mondo di ieri. Ormai sessantenne, una vita di cosmopolitismo innato e radicato poi tramite l’istruzione e la frequentazione di altri intellettuali europei, Zweig non è più in grado di reggere la messe di notizie disgraziate che la seconda guerra mondiale gli porta. L’Europa in cui ha creduto gli si sta disintegrando fra le mani, e a più riprese l’autore viene colto dall’inquietudine di non aver saputo leggere in tempo i segnali della tragedia: “Cresciuti nell'idea del diritto, credevamo all'esistenza di una coscienza tedesca, europea, universale, ed eravamo convinti che ogni eccesso di barbarie fosse tale da abolirsi da se stesso una volta per tutte di fronte all'umanità. Poiché io qui tento di mantenermi equo quanto mi è possibile, debbo dichiarare che tutti noi nel 1933 ed ancora nel 1934, in Germania ed in Austria, ogni volta non ritenemmo possibile neppure la centesima, neppure la millesima parte di quanto invece poche settimane successive portarono con sé. [...] È chiaro: tutti gli orrori, come i roghi di libri, le gazzarre attorno alla berlina, che pochi mesi dopo eran fatti reali, apparivano un mese dopo la salita al potere di Hitler, ed anche a persone di ampie vedute, eventualità inconcepibili. Il nazionalsocialismo, con la sua tecnica di inganno senza scrupoli, si guardò sempre dal proclamare l'intero radicalismo delle sue mete prima di avervi allenato il mondo. Questo era il loro prudente metodo: una piccola dose seguita da una piccola pausa, poi un'altra dose. Una pillola ed un momento d'attesa, per vedere se non era stata troppo forte, se la coscienza mondiale tollerava quel dosaggio. Ma poiché la coscienza europea - a danno e vergogna della nostra civiltà - ostentava con grande zelo la propria indifferenza, sin che quelle violenze avvenivano "oltre confine", le dosi si fecero sempre più forti, ed alla fine ne fu rovinata l'Europa intera.”
Zweig è un biografo, sebbene la sua produzione letteraria abbia spaziato in vari campi, dalla drammaturgia al giornalismo passando per la poesia, e all’apice della sua carriera è uno scrittore famosissimo in tutto il mondo. In quanto biografo è anche studioso di storia, e non può quindi esimersi dall’interrogarsi sul ruolo della storia nelle vicende umane. Non si arriverà, con lui, alle lunghe e attente disamine sul senso della Storia che Tolstoj mezzo secolo prima concentrava, soprattutto nel didascalico finale, nelle pagine di Guerra e Pace; tuttavia, operando da studioso, deve comunque porsi il problema, il problema di vita reale e non solo di finzione romanzesca, se lo studio della storia aiuti effettivamente a pensare a lungo termine, e quanto la conoscenza di un argomento implichi la possibilità di prevederne gli sviluppi.
Allo scoppio della Grande Guerra Stefan Zweig, poco più che trentenne, ha già una formazione cosmopolita. Ha viaggiato per il mondo ed è diventato amico degli intellettuali dell’epoca, da Hesse a Rodin, e in special modo si lega a Romain Rolland. La sua istruzione deve molto alla cultura ebraica - la sua famiglia fa parte della buona borghesia ebraica cosmopolita che anima la vita viennese - e alla varietà di culture che popolano l’impero asburgico prima della sua frammentazione, ben più che a quanto apprende a scuola, luogo che invece lo annoia e del quale percepisce l’angustia intellettuale. Quando, dopo la guerra, vede l’Austria come “un tronco mutilato”, propone insieme all’amico Rolland di essere coscienza civile dello spirito europeo. Il suo obiettivo è l’unità intellettuale d’Europa e la partecipazione di un’Europa unitaria al consesso mondiale: “Non si deve seppellirsi in un passato morituro, ma partecipare alla sua rinascenza.”
Alla necessità della nascita di questo spirito partecipano numerosi fattori. C’è la crisi morale e ideologica scatenata dal conflitto mondiale e dalle assurdità militari, che si vedrà riflessa in letteratura in titoli come Addio alle armi di Hemingway, allora ancora in procinto di diventare generazione perduta, come Niente di nuovo sul fronte occidentale di Remarque che sconterà le successive accuse di disfattismo; o ancora i primi lavori di Brecht o Il Buon soldato Sc’veik di Hašek - che pure, a conti fatti, nasce come carattere negli anni antecedenti al conflitto. Ci sono le considerazioni preoccupate sulla conferenza di Versailles del 1919 fatte da un interprete d’eccezione quale John Maynard Keynes, che osserva la miopia delle risoluzioni: “Clemenceau vede le cose in termini di Francia e Germania, non di umanità e di civiltà europea in cerca di un nuovo ordine”; e, lamentando la scarsa propensione a scendere a compromessi ammannendo, in loro vece, una serie di arzigogoli retorici, chiosa: “Al che si cominciò a tessere la rete di sofismi e di esegesi gesuitica destinata infine ad ammantare di insincerità il linguaggio e la sostanza dell’intero trattato.” [1] Del piano del presidente americano Wilson, Zweig stesso nota: “La sua idea era conferire libertà ed indipendenza alle piccole nazioni, ma egli aveva giustamente riconosciuto come tale libertà ed indipendenza non potessero esistere se non nell'ambito di un legame ad unità superiore di tutti gli Stati piccoli e grandi. Non creando questa organizzazione superiore, questa effettiva e totale Società delle Nazioni, ma mettendo in atto l'altra parte del suo programma, l'indipendenza dei piccoli Stati, si produsse, invece che pacificazione, nuova tensione. Nulla è infatti più pericoloso della megalomania dei piccoli, e prima cura dei piccoli Stati fu infatti, appena messi al mondo, intrigare l'un contro l'altro e disputarsi piccoli lembi di terra.”
Ma la linfa a cui attinge è antica: c’è ancora, tra i padri dello spirito europeo sognato da Zweig, Rolland e altri, il lascito illuminista; c’è la filosofia positivista, che pure vivrà feroci crisi già dai primi anni del Novecento; c’è il pacifismo giuridico di Immanuel Kant che prevede una civitas gentium estendibile a tutti i popoli del pianeta, posto che si voglia ragionare sui temi del diritto internazionale, sull’istituzione di strutture sovranazionali e sul mutuo riconoscimento dei cittadini del mondo. [2]
Zweig, cantore dei vinti e del loro spirito superiore da lui descritto in biografie come quella di Erasmo e di Geremia, dalla metà degli anni Trenta vede banditi in Germania i suoi libri. Tutto attorno a lui collassa. Assiste alle tempeste dell’inflazione in Austria e Germania, descrivendo quello che chiama “il tradimento del denaro”, e assiste parimenti al crollo della fede nell’autorità e della legge morale così come era stata declinata in un mondo che si reggeva sugli equilibri tra grandi imperi. Dopo il disfacimento bellico assiste a quella che viene concepita una sorta di “età dell’oro per tutte le stravaganze”, al sorgere anche pirotecnico di ideologie e comportamenti messi in atto come protesta e sovvertimento sociale contro “il mondo di ieri”, quello che con la Grande Guerra ha tradito i suoi figli e li ha portati alla mutua distruzione. Ci sono le avanguardie, c’è l’esplosione vitale della creatività artistica. Ma non c’è solo l’arte a risentire dei cambiamenti, e l’aria nuova non sempre è fresca. Zweig assiste all’incupirsi della situazione economica e sociale, al lento svuotamento interno della democrazia, alla miseria che comincia ad attanagliare la classe media, alla paura degli effetti prolungati della depressione, alla ricerca di sicurezza sociale, al progressivo discredito di una classe politica vista come inetta e compromessa, al deflagrare di quello che Jeffrey Herf [3] successivamente chiamerà modernismo reazionario, al crollo di fiducia nella democrazia rappresentativa il cui valore veniva più e più volte (invano) sottolineato dal suo connazionale Hans Kelsen [4]. E, infine, si trova inerme e finalmente consapevole dinnanzi al dispiegarsi inarrestabile della tragedia. Anche allora lo scrittore, il cosmopolita che sta per diventare apolide, non si stanca di ragionare. Che cos’è l’Europa? Che cosa è stata, cosa deve diventare, quali sono le sue potenzialità? L’asilo in Svizzera e i suoi frequenti contatti precedenti con la confederazione elvetica gli suggeriscono un’idea di Europa pacificata e federata. Riecheggiano le parole di Victor Hugo al Congresso della Pace di Parigi nel 1849, una riunione in cui si parlava di arbitraggio internazionale, di disarmo e della possibilità dell’istituzione di un congresso delle nazioni: “Verrà un giorno in cui voi – Francia, Russia, Italia, Inghilterra, Germania – tutte le nazioni del continente senza perdere le vostre qualità distinte e la vostra gloriosa individualità, vi fonderete in modo stretto in un'unità superiore, formerete in modo assoluto la fraternità europea così come la Normandia, la Bretagna, la Borgogna, la Lorena e l'Alsazia – tutte le nostre province – si sono unite nella Francia. Verrà un giorno in cui non vi saranno campi di battaglia al di fuori dei mercati che si aprono al commercio e degli spiriti che si aprono alle idee. Verrà un giorno in cui le pallottole e le bombe saranno sostituite dai voti, dal suffragio universale dei popoli, dal venerabile arbitrato di un grande senato sovrano che sarà per l'Europa ciò che il Parlamento è per l'Inghilterra, ciò che la Dieta è per la Germania, ciò che l'assemblea legislativa è per la Francia! Verrà un giorno nel quale l'uomo vedrà questi due immensi insiemi, gli Stati Uniti d'America e gli Stati Uniti d'Europa, posti l'uno di fronte all'altro, tendersi la mano al di sopra dell'oceano...”[5]
Ma le contingenze della storia, quando Zweig si trova a rifletterci sopra, sono ormai quelle che sono. Amareggiato e senza speranze, decide che il suo tempo è passato. Muore prima degli embrionali tentativi europeisti del secondo dopoguerra, muore quando il Terzo Reich sembra ancora inarrestabile. “La più intima missione, quella cui per quarant'anni avevo dedicata ogni energia del mio convincimento, la pacifica federazione dell'Europa, era andata in rovina; quello che io avevo temuto più che la mia stessa morte, la guerra di tutti contro tutti, era ormai scatenata per la seconda volta e colui che per tutta un'esistenza aveva appassionatamente operato per la fraternità dell'animo e dello spirito umano a quell'improvvisa esclusione, si sentì, nell'ora che più di ogni altra esigeva indissolubile comunanza, più inutile e solo che non fosse mai stato in sua vita.”
Visioni come la sua hanno un andamento carsico e ricorrente nella storia d’Europa. A volte si rinvigoriscono, a volte sembrano così lontane e perse.
[1] J.M. Keynes, Il consiglio dei Quattro, 1919, in Sono un liberale? 1931, 1933, the Royal Economic Society e 2010, Adelphi
[2] I. Kant, Per la pace perpetua, 1795; Feltrinelli 1991
[3] J. Herf, Reactionary Modernism - Technology, culture, and politics in Weimar and the Third Reich, Cambridge University Press 1984
[4] H. Kelsen, Essenza e valore della democrazia, Giappichelli, 2004
[3] J. Herf, Reactionary Modernism - Technology, culture, and politics in Weimar and the Third Reich, Cambridge University Press 1984
[4] H. Kelsen, Essenza e valore della democrazia, Giappichelli, 2004
[5] V. Hugo, Discorso inaugurale alla conferenza di pace di Parigi, 21 agosto 1849, reperibile online in originale e in traduzione.
Tutte le citazioni di Stefan Zweig sono tratte da: S.Zweig, Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo, Mondadori, 1994
Complimenti: articolo molto interessante. Argomento di angosciante attualità.
RispondiEliminaCordiali saluti
Grazie, anche io lo trovo più attuale di quanto vorrei che fosse, anche se ovviamente casi e accidenti storici non sono mai perfettamente replicabili su tempi diversi, vista l'enormità di variabili in gioco.
EliminaBuona giornata!