lunedì 27 febbraio 2017

Sette pianeti in settenari

Sette pianeti in settenari 
L’umano non vuol pace,
ché di saper ha fretta:
all’infinito getta
lo sguardo, e si compiace.
Il cielo si confonde,
d’ignote voci tana.
La rossa palla nana
lì, senza nucleo, fonde
idrogeno a rilento;
e fredda luce sputa,
discosta, trattenuta,
lunghissimo lamento.
Dell’esistenza l’orme
da poco le solleva:
quaggiù noi s’esplodeva
d’indefinite forme,
nei mari del Cambriano
schiumavano profuse
ipotesi diffuse
d’un mondo vario e strano:
e lei, lassù, la stella
allora si raddensa,
qual fa il pensier si pensa
e infine si modella,
e scinde notte e giorno:
e, segni d’alfabeti,
microbici pianeti
le gravitano attorno,
al lor passar si flette
la luce che lì sboccia;
son grana spessa e roccia,
serrati, tutti e sette.
La massa s’assomiglia
a quella stessa nostra,
e forse in tre si giostra,
sì come in questa biglia,
il gorgogliare d’acque:
chiassose, rotolanti,
sì che in codesti istanti
lo specular ci piacque
di vita, poca o tanta,
che tutta in sé s’appaga;
e la si conta, vaga,
che un giorno la si agguanta,
un giorno mai venuto,
un voto mai riscosso.
Si guarda l’occhio rosso
dentro lo spazio muto.

domenica 12 febbraio 2017

Il Segno

Il Segno
(facezia domenicale in memoria di Umberto Eco)

“Ricordati quello che si dice: all’interprete è concessa una particolare autonomia esecutiva, giacché può intervenire anche sulla forma della composizione” mi sussurra Danieli, con la solita faccia arcigna che si ritrova, mentre entriamo nella stanza. Mi ha dovuto convincere con le buone e anche con le cattive, prima che lo seguissi. La penombra è conforme alle aspettative, e così anche l’odore di chiuso. Siamo gli ultimi. Gli altri sono già tutti seduti attorno al tavolino rotondo, apocalittici e integrati, chi con un’aria compassata, chi avvolto nella maschera del sarcasmo e dello scetticismo e però si vede che suda per il disagio. La vecchia - si fa chiamare Rosa, ma che cos’è un nome? in fondo la rosa primigenia esiste solo nel nome - si staglia ossuta, gli occhi simili a pezzi d’opalina insaccati nelle palpebre, la bocca che tira da una parte. Emette un suono gutturale con cui ci fa cenno di sederci. Troviamo posto, Danieli e io, e appoggiamo le mani sul tavolo. “A me sembra una stronzata” sussurro. Danieli si limita a darmi un colpetto col ginocchio.

La vecchia comincia a parlare. La guardo, per quanto l’oscurità me lo permetta - la stanza è debolmente illuminata da candele puzzolenti. È tutto così dozzinale. Libri di Abelardo e San Tommaso si mischiano senza pudore a quadernacci d’astrologia. Nascosta da qualche parte ci dev’essere anche una tavola ouija, so che la vecchia lavora anche con queste chincaglierie. Se la medium è anche il messaggio siamo messi bene, penso, e vorrei anche sospirare ma ho paura che mi sentano.
Gran bel modo per trascorrere l’anniversario di una morte, mi dico. E mi rassegno.

“Ringrazio tutti voi di essere riuniti qui. Riverbero di conoscenza, spirito che vaghi” fa la vecchia. La voce le trema, probabilmente ad arte. “Spirito che vaghi, i tempi sono oscuri: legioni di imbecilli sono uscite dal bar e si sono arrogate diritto di parola sui social, come saggiamente paventavi. I tuoi discepoli brancolano nell’oscurità della tua mancanza, arroccati a una vetusta sintassi, vanamente protesi a decostruire complotti! Sono qui, tutti quanti, in attesa di un segno.” La voce della vecchia vibra come la canna d’un organo morente: “Spirito, dacci un segno!”

E qui cominciano i problemi. 
“Il segno deve essere postulato come entità mediana tra il sistema delle figure e la serie indefinita delle espressioni assertive, interrogative, imperative a cui è destinato” dice Danieli. Sono io, a questo punto, che vorrei assestargli un colpo col ginocchio, ma non faccio in tempo perché dall’altra parte del tavolo - chi sarà? Giacomazzi? non riesco a distinguere - strilla: “Ma del segno conosciamo sempre e soltanto la faccia significante?”
“Parliamo del segno fondato sulle categorie di somiglianza e identità” lo rimbrotta una voce alla mia sinistra. Danieli sta per intervenire di nuovo, ma la vecchia attacca a tremare e, d’imperio, tuba ululando: “Silenzio! Lo spirito non va disturbato. Segni e parole non saranno distinti.” Si schiarisce la voce e ricomincia. “Spirito che vaghi...”
“Ecco appunto, la vaghezza” si lamenta Riva - non può essere che Riva. “La classe dei conseguenti ne risulta volutamente imprecisa.”
“Non tralasciare i nodi metaforici!” sibila qualcuno a lui vicino.
“Io credo che dovremmo partire da un’analisi comparata delle potenzialità della deduzione, dell’induzione e dell’abduzione” e questa è proprio la mia voce, che ascolto come se fosse estranea. Che ci sta succedendo?
La vecchia non si dà per vinta, e performando un’espressione prestabilita, ci intima di concentrarci, se no va tutto a monte. “Spirito...”
E qui cominciamo ad accapigliarci sullo spirito in sé, sull’essenza e la sostanza. “I predicati! I predicati!” Danieli è saltato sul tavolo e si agita come un ossesso.
La vecchia sbotta, maledice perentoria le nostre mutevoli intensioni, si alza e va a farsi un caffè. 


È passato un anno; come siamo soli, mi dico.

lunedì 6 febbraio 2017

L'Angolo dei Perversi

Il mio liceo era un edificio vecchio, risalente agli anni Venti del secolo scorso, quando le classi - all'epoca era una scuola elementare - contavano quaranta o cinquanta allievi; alcune aule erano state in seguito divise in due con un tramezzo, ma quella in cui eravamo noi no, era rimasta grande, inutilmente grande per la ventina scarsa di quindicenni che la popolavano. Eravamo disposti su due file, addossati alla lavagna e alla cattedra, e dietro di noi si estendeva questo vuoto grottesco, fino alla parete di fondo e ai ganci per i cappotti. Mi ricordo tanta luce e tanto vuoto e un colore tenue tra il beige e il verde pallido, che veniva riempito con delle sbuffate periodiche di polvere di gesso e dall'odore acidulo degli adolescenti.
All'altra parete, quella di fronte a noi, dietro la cattedra, c'era il regolamentare armadio metallico - cosa contenesse, non ricordo; forse stava solo lì, come una stele muta.
Vicino all'armadio c'era un ulteriore banco, addossato al muro, in modo che chi vi sedeva fosse bloccato a guardare l'intonaco. Questo posto si chiamava L'Angolo dei Perversi e adesso vi racconto perché.
Il nostro professore di lettere - che, lo ricordo, al ginnasio voleva dire italiano, latino, greco, storia e geografia, diciotto ore sulle ventisette settimanali - era un ometto strano. Tarchiato, senza capelli, la testa lustra solcata da una vena che poteva gonfiarsi a dismisura e all'improvviso, umorale, ecco, molto umorale. Veniva a scuola in Vespa. Lo vedevamo arrivare dalla finestra: Vespa rossa, casco bianco, e ricacciavamo in gola un sospiro. 
Di solito era calmo. Qualche volta scherzava. Si sedeva, salutava, metteva il registro sulla cattedra, tirava fuori di tasca un orrido dado verde a venti facce col quale decideva chi interrogare - io ero il numero dodici, in quinta. Il diciannove in quarta. Se Dio giocasse a dadi, gli chiederei in futuro di assegnarmi numeri diversi. Lì però Dio era il professore di lettere e a quello bisognava adeguarsi. Si accomodava, dunque; poi apriva lentamente i tre cassetti della cattedra, e li lasciava aperti. E faceva lezione. All'inizio dell'anno aveva detto, seraficamente: prima della fine del ginnasio ciascuno di voi dovrà piangere almeno una volta.
"Dovete espiare". Era un'altra cosa che diceva sempre.
Avevamo quattordici anni, poi quindici. Espiavamo. Non so bene cosa. Espiavamo.
I meccanismi della mente umana sono bizzarri. Poteva trascorrere l'ora senza che nulla accadesse, ma era raro. L'uomo non era prevedibile. Si arrabbiava. Non potevamo sapere il motivo e l'esito. Lo stesso episodio poteva strappargli una risata, lasciarlo tranquillo o farlo imbestialire fino al parossismo. Allora si sedeva in punta della sedia e la vena sulla testa si gonfiava. Diventava tutto rosso. Sbatteva con violenza il primo cassetto, e lo richiudeva. Prima sfuriata. Secondo cassetto. Seconda sfuriata. Terzo cassetto. Ad ogni colpo secco saltavamo sulla sedia. Poteva essere contro qualcuno o contro tutti. Urlava che ce la doveva fare pagare. Non so bene cosa. Espiavamo. Poteva essere un verbo sbagliato, un libro caduto, uno sguardo fuori dalla finestra; oppure, semplicemente, niente. Andava così. Urla che prorompevano in mezzo alla quiete. Imprecazioni, promesse di farcela pagare e di rovinarci.
Altre volte si alzava, camminava tra i banchi e menava schiaffi a caso sulla nuca - un nostro compagno di classe aveva il busto, e l'uomo bizzarro quasi si ruppe una mano, e in effetti allora smise.
Altre volte ancora ci lanciava addosso quello che aveva a portata di mano. I gessi, il cancellino, l'orrido dado verde, i libri - fortuna volle che non ci fosse mai sulla cattedra il vocabolario di greco. Cronaca cittadina, studente ucciso a colpi di Rocci. No, no. Nessun ferito.
Si piangeva, quello sì. Spesso. Io piangevo a casa perché in classe un po' non volevo dare soddisfazione, un po' avevo paura delle conseguenze.
E poi c'era l'Angolo dei Perversi. Ci si finiva per i motivi più vari, il che voleva dire soprattutto per noia dell'uomo bizzarro. Una volta ci finii perché non avevo consegnato la brutta copia del compito di italiano; e non l'avevo consegnata perché non l'avevo fatta, a parte uno schema iniziale appuntato da qualche parte ho sempre scritto i temi direttamente in bella copia. "Mi prendi in giro. Devi espiare."
Da un certo punto di vista l'Angolo dei Perversi era anche rassicurante perché nel caso di lancio di libri si era fuori dalla traiettoria. Quando si andava in quel banco si veniva esclusi dal novero dei viventi - prima ci si doveva vergognare (ed espiare), poi si veniva ignorati. Era come una sacca di non esistenza all'interno della mattina. Nessuno faceva niente, nessuno poteva fare niente. Ho trascorso lì buona parte dei due anni di ginnasio, e quasi tutto il secondo quadrimestre della quinta, quando l'uomo bizzarro smise di correggere i miei compiti di greco (perché, indovinate, dovevo espiare) e a mettermi tre senza guardare, facendomi piombare dall'otto a febbraio agli esami di riparazione di settembre. Quando lessi i quadri, a fine anno, piansi in autobus, ma non aveva importanza perché piangere non era più pericoloso o umiliante.
Che cosa si faceva, una volta seduti lì? Si cercava di seguire la lezione, ovviamente, girando tutto il collo per vedere che succedeva nel resto del mondo. Quindi venivano anche dei doloretti. Si fissava il muro. Si riempivano fogli di quaderno di pensieri sulla morte e sull'assoluto, quelle sciocche poesie adolescenziali piene di urgenza di spiegare cose di cui non si capiscono i confini, e che inevitabilmente finiscono con lo sformarsi sulla carta. Che altro? Si assisteva alle sfuriate, senza capire perché. Abbiamo tutti trascorso due anni senza capire perché. In teoria ci si doveva sentire in colpa. E perversi, perché quello era l'Angolo dei Perversi.
Un giorno entrò in classe la vicepreside a dirci che avrebbe fatto lezione lei, perché l'uomo bizzarro era rimasto a casa per una colica renale.
Ricordo scene scomposte di giubilo.
Fu giusto per un paio di giorni, però tornai al mio posto con gli altri, e fu bello.