venerdì 23 marzo 2012

matematica postmodernista

Oggi la Scuola Postomodernista di Ontomatematica si occupa di due forme indeterminate:
1/0 e 0^0

Dal punto di vista ontologico una espressione come 1/0 significa semplicemente che l'Essere (l'Uno) si erge, essendo, relegando nell'imo il Non Essere, qui rappresentato dallo zero, con abuso di notazione perché lo zero all'epoca di Parmenide non c'era, ma fa niente. Cioè, non può non fare niente, perché il non essere non è, quindi fa qualcosa, ma non importa. La linea di frazione, che già nel nome richiama lo scisma, la frattura, la tragica rottura data dalla necessità dell'Essere, rappresenta l'epanfoterìzein, come direbbe Severino, l'oscillare tra essere e non essere, tra 1 e 0, come in un codice binario.
In maniera analoga, 0^0 (zero elevato alla zero) rappresenta il Non Essere che cerca spasmodicamente di trascendersi; siccome nulla nasce dal nulla, e il Non Essere, non-essendo, non può nemmeno fare alcunché o avere spasmi tensivi, questa espressione non è indeterminata, ma fa ontologicamente zero, e pazienza se vi sono argomenti derivati dallo studio dei limiti o dalla teoria delle categorie che indicano una predilezione a porre, sia pure convenzionalmente, 0^0=1.

© ET 2011

giovedì 22 marzo 2012

Blues



Dentro ad un'aria un po' sfatta e salmastra
le dita su un dobro di sogni e di latta
un'aria gentile, la pelle olivastra
suonava il blues degli idrocarburi.


© foto: Elena Tosato 2008

martedì 20 marzo 2012

L'invasione degli stafilococchi

Anni fa mi ammalai di cistite. Una prima dose di antibatterico d’emergenza non fu sufficiente a stroncare il male che si presentò, recidivante, per alcuni mesi. La visita ginecologica non rilevò niente di anomalo. Una prima urinocoltura andò a vuoto perché mascherata dagli effetti della fosfomicina; e il male proseguì indisturbato e rispuntando come un fiumiciattolo carsico nei momenti meno opportuni. Due settimane di pace, tre giorni d’inferno, sangue e bestemmie. Si poteva continuare così? Alla fine, stremata dai crampi e dal bruciore, all’ultimo attacco decisi di stringere i denti e di non prendere niente: andai in queste condizioni a fare l’urinocoltura con l’annesso antibiogramma, attesi gli esiti e infine andai dal medico a farmi prescrivere una cura seria. Otto giorni di antibiotico che mi causò altrettanti giorni di mal di mare furono sufficienti a stroncare gli stafilococchi. Ormai sapevo tutto degli stafilococchi. Me li immaginavo ligi e raggruppati come soldati nordcoreani. Ripresi la mia vita normale.
In seguito appresi che v’è una pletora di rimedi alternativi per la cistite: da quelli a base di succo di mirtillo rosso, all’agopuntura, a una sorta di psicanalisi col santone che legge l’aura, ai rimedi a base di altri intrugli naturali, mi raccomando, naturali, la parola chiave è questa, perché tutto ciò che appena richiama la chimica implica necessariamente
1. speculazioni economiche da parte delle case farmaceutiche
2. morte dell’ecosistema
3. trasformazione dell’Uomo Naturale in una specie di Frankenstein mutageno.

C’erano rimedi ancora più fantasiosi, come quello di strofinare un’immaginetta della Madonna in situ. Sembra che purifichi tutta la parte. E poi un'altra teoria secondo la quale una cistite è causata da un conflitto che deriva dall’impossibilità di marcare il territorio.

Un tizio che crede a queste cose m'ha detto: “Capisci? Gli animali marcano il territorio tramite l’urina. Se non puoi farlo, se ti viene impedito dalle circostanze, o da qualcuno che ha potere su di te, un capo, una persona potente... no? in quel caso il conflitto scoppia e siccome è la psiche che influenza il cervello e il cervello che influenza gli organi, allora ti viene al cistite. Quando fai fatica a rielaborare un lutto, per esempio, ti ammali. Il cancro nasce così. Molte malattie nascono così. Prova a pensare a quale conflitto avevi, e vedrai che ho ragione”
“Non avevo nessun conflitto, era un periodo molto felice” ho risposto io.
“Probabilmente l’hai rimosso. È un meccanismo psicologico, la rimozione, sai?”
“Io ho preso l’antibiotico. È per quello che sono guarita. Non ci ho pensato sopra, non ho elaborato un lutto, cristo santo. Erano batteri. Stupidissimi batteri che vivevano tranquilli nell’intestino, e per qualche motivo sono venuti a contatto con l’uretra, sono risaliti e hanno colonizzato la vescica. Tutto qui. Ho preso l’antibiotico. Ho rimosso i batteri.”
Lui ha scosso la testa con fare conciliante. “Ma sì, certo che c’erano i batteri.... io mi riferisco alle cause, all’eziologia profonda, capisci? E poi considera, considera questo: i batteri sono nostri amici. Gli antibiotici sono dannosi, perché li uccidono. Hai ucciso degli elementi che sono amici del tuo corpo.”

"Beh, dipende da dove stanno, quei batteri. Nella mia vescica stavano malissimo, per esempio; si sentivano spaesati, fuori luogo, con un sacco di problemi psicosomatici derivati dal fatto che erano andati a marcare un territorio abitualmente non di loro competenza ed erano dilaniati dai sensi di colpa: eppure, pur soggiogati dai risultati della loro hybris, non riuscivano a tornare da dov'erano venuti. Io li sentivo lamentarsi, dicevano ‘noooo, nooooo, non vogliamo stare qui, questa non è vita, vogliamo andarcene, abbiamo capito che colonizzare questa landa sconosciuta ci porterà soltanto degli scompensi affettivi... ti preghiamo, Elena, poni fine alle nostre inenarrabili sofferenze!’
Ed io rispondevo, già in preda ai rimorsi: ‘siete sicuri, amici miei? per porre fine alle vostre sofferenze dovrei uccidervi tutti, siete pronti ad affrontare con dignità l'estremo sacrificio?’ (naturalmente tutto questo dialogo si svolgeva in via telepatica, non credere che io ci parlassi davvero, ai batteri)
E loro: ‘Sì, berremo l'amaro calice fino in fondo. Meglio la morte che questa vita in esilio, che pure stoltamente ci siamo comminati da soli, come neanche Edipo a Colono. La patria è lontana e non v'è speranza. Ah, fato crudele!’
E così ho fatto. Antibiotico a profusione e morte dei batteri. Fortunatamente sono riuscita a rielaborare in fretta il trauma da distacco, altrimenti chissà, mi sarebbe venuta una faringite o il ginocchio della lavandaia o qualcosa di orribile che non riesco nemmeno a immaginare."

Io gli ho risposto così, ma poi quel tizio non l'ho più visto. Si dev'essere offeso. Spero non troppo, se no gli viene un malanno.

lunedì 12 marzo 2012

Chopin

I palazzi sono raccolti in cerchio sopra a un cortiletto fatto a spicchi: a ciascuno la sua fetta di giardino. Dirimpetto al condominio dove abita mia madre, all’ultimo piano, vive una coppia di anziani, di quelli che sono stati insieme per tutta la vita, tanto che alla fine camminano allo stesso modo, vestono allo stesso modo, respirano allo stesso modo, e i lineamenti si incrociano, si sono scambiati un po’ della faccia durante gli anni.
I due li riconosci perché indossano sempre un impermeabile beige, come l’ispettore Derrick. Camminano vicini, curvi, non salutano nessuno, parlottano tra di loro. Lui è un vecchio musicista, ha insegnato pianoforte. Adesso non insegna più, ma suona ancora, tutti i giorni, verso sera si mette al pianoforte e suona. Un’ora, all’imbrunire, così. C’è molto Chopin nel suo repertorio. Suona bene.
Io vado lì d’estate e la finestra resta aperta e la musica scende nel cortile.

Una sera la finestra è muta. Anche la sera dopo, e quella successiva. Nei giorni a venire vediamo solo lei, che va e viene da casa, come un insetto industrioso, testa bassa, aria bianca, dritta per la sua strada. Lui ha avuto un ictus. Quando torna dall’ospedale è dimezzato. Si è rimesso al pianoforte e per noi e per lui è una pena: esercizi strazianti per riprendere il controllo sulle dita, per suonare quello che nella testa è rimasto intatto ma per cui il corpo non risponde più. Allora si cimenta in accordi e scale, incertezze sul tempo, rabbia strozzata: il vecchio pianista non si fa mancare nulla. La frustrazione diventa dolore e viceversa.

L’estate successiva torno sotto le sue finestre. Tutto tace. Però lo vedo, di tanto in tanto, insieme alla moglie, tornare dal mercato, entrambi aggrappati al carrettino della spesa. Stesso impermeabile di Derrick, spalle un po’ più curve, senza salutare, solo bisbigli tra di loro, chissà che si dicono.
Una sera si rimette al pianoforte. Abbozza un paio di scale per sgranchirsi. Poi comincia a suonare, Chopin, ed è tornato lui. Le mani rispondono, la stanchezza non lo fiacca. Suona ininterrottamente un’ora, di tanto in tanto improvvisa qualcosa, poi torna a Chopin, sempre Chopin. Chiude con una polacca in cui ha buttato dentro l’intera umanità.

Qualche giorno dopo sono passati col camion a sgomberare l’appartamento, hanno portato via il pianoforte col resto dei mobili e le sere d’estate e Chopin. Ora i due sono in ospizio, o forse morti, chissà, nessuno ne ha più saputo nulla, però secondo me si somigliano ancora e hanno l'impermeabile, ovunque siano adesso.

© ET 2010, da una storia vera.