mercoledì 24 febbraio 2016

Vita e avventure di un Neologismo Scaduto

Fiaba con molta morale, che potete anche scaricare in pdf cliccando qui


Nelly
vita e avventure di un neologismo scaduto




Vagava solitario tra le pieghe del Mondo delle Parole, senza dar retta a nessuno, senza cercare di intrattenersi con gli altri Lessemi, con una smorfia amara sul volto e le spalle a spiovere. Era un Neologismo Scaduto; nessuno si ricordava più quale fosse il suo significato e nemmeno come si chiamasse, la sua vita nel Vocabolario era stata talmente breve che egli stesso non avrebbe saputo rispondere a chi gli avesse chiesto il suo nome e per questo, essendo pur sempre un Neologismo, aveva preso a farsi chiamare Nelly. Non che ci fosse un reale bisogno di dargli un nome, dal momento che, scontroso com’era, tutti avevano preso a evitarlo; ma non si può mai sapere come gira il mondo, e poi il fatto di avere comunque un nome, seppure inventato da lui stesso, gli dava un po’ di sollievo.
L’unico essere vivente con cui scambiava qualche impressione era il vecchio e saggio Analista delle Parole, il massimo esperto di lingua, neolingua e antilingua, il dottore che curava i mali dell’animo degli aggettivi, l’ambiguità dei sostantivi, l’irregolarità dei verbi e, almeno così si tramanda, era in grado perfino di dare un conforto alla solitudine degli hapax legomena, quando qualcuno di essi gli si presentava davanti, candido e afflitto, virgineo come una vestale in attesa di consumarsi nel rito fatale, e gli chiedeva conto della propria sfortuna. 
“Ah, dottore” diceva Nelly, accomodandosi sul lettino e guardando in alto un punto all’infinito, con aria inebetita e lamentosa “Va male, va davvero male”
“Sentiamo” rispondeva paziente l’Analista delle Parole, e si metteva ad ascoltare.

La prima volta che si erano visti, Nelly da principio quasi non aveva aperto bocca. Piangeva la sua perdita repentina di significato e di visibilità, e il dottore aveva penato non poco per calmarlo e per fargli accettare, almeno formalmente, che tra le possibilità di un Neologismo come lui c’era anche quella di non attecchire.
“La lingua è un fatto misterioso” aveva detto “E nessuno ne può prevedere il comportamento. Sa, Nelly” aveva aggiunto, e la sua voce veniva da molto lontano “Io sono qui dall’origine dei tempi. Ha presente quando si dice che in principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio eccetera eccetera? Ecco, io c’ero. Ho visto alfabeti nascere e morire; ho appreso lingue che non esistevano e altre che si trasformavano; ho studiato, ho imparato il mestiere man mano che lo esercitavo; mi sono dirozzato su tutte quelle dannate ‘k’ di Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, ho sperato di non doverne vedere mai più e me le sono ritrovate tutte di nuovo nei messaggi limitati a 140 caratteri; ogni giorno qui me ne capita una nuova, m’arriva una polirematica che vuole usarmi come capro espiatorio, due omonimi che mi reclamano come arbitro, verbi polisemantici che pretendono di saperne più di me, e...”
“Ma il mio caso è diverso” aveva risposto Nelly, un po’ piccato “Io avevo un significato e subito l’ho perduto. E non è tutto!”
“Continui, allora” aveva detto l’Analista, conciliante.
“L’altro giorno camminavo per i fatti miei, rimuginando sulle mie sventure, e senza accorgermene sono finito in una Piega del Mondo che non conoscevo. Ho cercato di tornare indietro ma ho subito capito d’essermi perso. Non le dico la paura, dottore” e si mise a piagnucolare tanto che dovette fermarsi e soffiarsi rumorosamente il naso.
“Continui, Nelly, continui”
“Il cielo si era fatto nero, le strade buie e minacciose, non avrei visto nemmeno dove mettere i piedi se non ci fosse stata, qua e là, qualche lampada accesa, storta e malferma. Mi sono sentito osservato. Pesantemente osservato. Che dovevo fare? Scappare non potevo, perché non avrei saputo dove andare. Allora mi sono fatto coraggio e ho urlato: ehilà!
“E che cos’è successo?” L’Analista delle Parole si era sporto verso Nelly e lo ascoltava con attenzione.
“In un primo momento” aveva sospirato il Neologismo “non è successo niente. Ma io non mi sono lasciato intimorire dal silenzio e ho urlato: ehilà!, di nuovo. E allora le ho viste, dottore, le ho viste...” la voce gli si mozzò in un singhiozzo.
Il dottore si era alzato e gli aveva offerto un bicchiere d’acqua.
“Grazie” aveva mormorato Nelly d’un soffio, dopo aver bevuto. “Ne avevo bisogno. Ma lasci che riprenda a raccontare, dottore... erano tutte attorno a me, saranno state una dozzina, forse quindici, non saprei dire, lì, nell’oscurità; e chissà quante altre ce n'erano e io non le ho viste. Sei venuto nel nostro territorio, tu, ha detto una, sputando per terra con disprezzo. E un’altra, accanto a lei: come ti sei permesso? Ancora la prima: Tu, che sei stato sulla bocca di tutti per una sola stagione, come osi presentarti quaggiù? Come osi svilire il nostro eterno dolore? E io ho capito e mi si sono piegate le gambe...”
Il dottore aveva annuito gravemente con la testa. “Ho capito anche io. Erano le Parole Desuete, non è vero?”
Nelly aveva sgranato gli occhi: “Proprio loro! Hanno cominciato a danzarmi attorno, ridendo e strepitando come streghe in un Sabba. Io son Caramogio, io son Dilucolo, cantavano. Io sono Munuscolo, ed io son Glomere. Grande e terribile è la nostra storia, noi siamo le vetuste parole abbandonate, io son Rabido, io Salapuzio, soverchia e inane è la nostra facondia, uomini stolidi ci han dette pleonastiche, da altre parole si faranno abbacinare. Così cantavano, e io ho avuto tanta paura. Dicevano che non ero degno di stare lì e che mi avrebbero fatto a pezzi.”
“E lei? Come ne è uscito, Nelly?”
“Oh” aveva detto Nelly arrossendo. “Devo dire che me ne sono tirato fuori in un modo che io stesso non avrei mai immaginato. Le ho abbindolate. Ho raccontato una storia secondo la quale ogni parola è traduzione di un oggetto ma che non esiste una traduzione giusta, poiché ogni traduttore parte da una propria serie di ipotesi analitiche e da un proprio schema concettuale. Quindi non dovevano crucciarsi se erano state abbandonate, perché c’era speranza che il loro significato non fosse morto ma vivesse altrove, anche se magari lo faceva sotto forma di Prolisse e Sgraziate Perifrasi.”
“Ingegnoso” era stato costretto ad ammettere il dottore.
Nelly si era compiaciuto. “Non si erano ancora del tutto convinte. Allora io ho alzato le braccia al cielo e ho gridato una formula magica: Gavagai! E loro mi hanno lasciato andare. Di colpo, senza sapere bene come, ho ritrovato la strada di casa e mi sono messo al sicuro.”

Altre volte era andato dall’Analista delle Parole: gli parlava della sua irrequietezza, della sua incapacità di desiderare, della sua riluttanza a nominare altre Parole, soprattutto quelle in Uso. E, ogni volta, il dottore lo ascoltava e gli dava consigli. Queste erano state, fino ad allora, le esperienze di Nelly nel Mondo delle Parole. Ma un bel giorno, o per meglio dire un brutto giorno, ruzzolò nello studio dell’Analista delle Parole in preda a una frenesia incontenibile. Tartagliava, piangeva, si agitava, si fermava e cercava di riordinare le frasi, poi non ci riusciva e si disperava. Il dottore lo cinse paternamente con un braccio e lo fece sedere. “Tenga, Nelly. Giù, tutto d’un fiato” disse, porgendogli un bicchiere d’acqua nella quale aveva disciolto delle gocce di un medicamento.
Nelly scosse la testa, digrignò i denti, tentò quasi di azzannare il bicchiere. “No, no, sono a posto” schiumava. 
“Ma certo che è a posto. Beva, suvvia” gli disse il dottore, con voce più ferma. Alla fine Nelly bevve; il suo corpo sussultò ancora per qualche istante, poi si calmò. 
Guardò il dottore con occhi assonnati e riconoscenti: “Che cosa ci ha messo dentro?”
L’Analista delle Parole sorrise bonario. “Niente che le possa far male, Nelly. Ma adesso venga, si stenda. Mi racconti che è successo.”
Nelly si sentiva bene, adesso. Un piacevole torpore gli scaldava le membra. Il corpo aveva voglia di dormire, eppure la mente era perfettamente lucida. 
“È successo, dottore” disse. La sua calma era terribile. “È strano, perché pensavo che fosse la cosa che più desideravo al mondo. E invece ne sono rimasto... pietrificato. Ne sono arrivati altri, dottore. Altre parole come me.”
“Che intende dire, Nelly? Si spieghi meglio.” Il dottore aveva preso carta e penna e si accingeva a scrivere qualcosa.
“Altre parole coniate per il capriccio di qualcuno e che non significano già più nulla. E non è mica come con me, sa, dottore: perché io sono da solo, e non faccio danni. Loro no: viaggiano tutte insieme, come un esercito. E a un primo sguardo sembrano avere un significato. un senso. Magari, in altri contesti, ce l’hanno pure. Ero seduto su una collina e le ho viste arrivare: marciavano a ranghi serrati e il loro suono era lugubre e spaventoso.”
“Che cosa dicevano?”
“Mah, cose. Del tipo Siffatte posizioni sono da identificare unitariamente in diritti irrefragabili il cui esercizio non possa peraltro prescindere dall’adozione di atti permissivi qualora ne venga sancita l’idoneità, nelle situazioni di tipo suindicato, da dichiarazioni non suscettibili di revisione giuridica ai sensi dell’articolo...
“Oh, Numi” esclamò il dottore. 
“Proprio così” disse Nelly.
“È una cosa spaventosa”
“Oh, sì. Sono scappato. Con le parole desuete potevo avere qualche speranza di cavarmela, ma qui, dottore, che facciamo?”

L’Analista delle Parole si alzò e si mise a misurare la stanza a lunghi passi. Era pallido. Tacque a lungo. Le sue labbra si muovevano impercettibilmente e senza posa. Nelly non lo perdeva d’occhio un istante, immerso nello stato ipnotico e gradevole procuratogli dalla medicina.
“La lingua pensa e crea per te” disse a un certo punto il dottore, a mezza voce.
“Come dice?” chiese Nelly.
“Victor Klemperer. Oh, lasci stare. Non è importante. Quello che volevo dirle è che le capiterà ancora, Nelly. Queste sono Parole pericolose perché ubriacano il cervello e guastano la società, ma ne troverà di altro tipo e non meno perniciose, che capovolgeranno il mondo e le faranno pensare cose che non avrebbe mai avuto il pudore di pensare: le Parole della Propaganda, le Parole del Rituale. Stia attento. Stia sempre attento. Vada, corra, attinga alle Parole Colorate dei Poeti, alle Parole Falsificabili degli Scienziati. Solo le parole possono salvare le altre parole.”
“Ma io non sono più una parola” obiettò Nelly, un po’ avvilito. “Stante la situazione, dopo una rapida stagione di gloria io non sono che una stringa di lettere.”
Il dottore si sedette al suo fianco e gli accarezzò la testa. Era soltanto un ragazzino, quel Nelly, ora lo vedeva. “Non importa, Nelly. Le parole possono crearne delle altre.”
“Vuol dire che... be’, mi predoni il bisticcio, che vorrò dire di nuovo qualcosa?”
“E chi lo sa, Nelly. Se c’è una cosa che ho imparato delle parole, in tutti questi anni, è che non si arrendono mai.”

Ultima passeggiata in un bosco narrativo

Per chi se lo fosse perso, per chi passasse di qui, eccetera eccetera, qui c'è il link al mio articolo apparso su "Strade" il 20 febbraio a proposito della morte di Umberto Eco.


M’apprestavo stasera a sbrigare le ultime faccende, controlla le chiavi, verifica la telecamera di sorveglianza, le solite mansioni da custode, insomma, per quanto uno si chiami Pietro e gli sia stato detto che su di lui saranno costruite chiese un custode quello fa, ecco, la porta sul retro, le luci, i monitor, lame di luce lunare che entrano dalle vetrate opache.
Doveva essere una serata tranquilla, e invece - erano quasi le dieci - m’arriva un’informativa riservata. E io la leggo e ovviamente vado nel panico. Arriva quello lì. Quello lì, capito. Che sì, tutti gli uomini sono mortali, lui è un uomo, quindi prima o poi sarebbe successo, ma uno cerca sempre di non figurarselo; e già così infatti mi chiedo: e se fosse una menzogna? Come la distinguo? Una finzione narrativa? Una metafinzione narrativa? Rileggo l’informativa. Distinguo segni convenzionali di finzionalità? Vacci a capire.
Mi gratto la testa. Sudo. Pare che stavolta sia vero.


Potete leggere il resto qui (e anche condividerlo estaticamente, ça va sans dire)
Ultima passeggiata in un bosco narrativo

giovedì 18 febbraio 2016

Berlinguer, De Gregori e gli acusmatici


Nell’Anno di Grazia 1999 mi trovavo, in un tiepido pomeriggio di giugno, per le strade del centro di Padova sul mio motorino, un Ciao Piaggio bianco comprato di seconda mano qualche anno prima, che sputacchiava e vibrava senza arrivare a lambire i quarantacinque all’ora e col quale avevo già avuto due incidenti, ma a cui volevo bene perché mi portava ovunque volessi. Avevo appuntamento con i miei nonni sotto alla Loggia della Gran Guardia perché in piazza dei Signori c’era la commemorazione dei quindici anni della morte di Berlinguer e mia nonna, che politicamente in famiglia è Custode dell’Ortodossia, non si sarebbe mai potuta perdere l’evento, anche se a ben vedere l’orazione sarebbe stata a carico di Veltroni, “che’l me pare fiapetto[1]”. 
All’ultimo comizio di Berlinguer, Padova 1984, mia nonna non era peraltro stata presente; c’erano invece mio padre e suo fratello, che da allora per scaramanzia non erano più andati a un comizio insieme, salvo ritrovarsi per caso in piazza a sentire Prodi nel 1996, guardarsi in faccia, leggervisi il reciproco terrore, esclamare “sito qua anca ti” e sperare per il meglio eccedendo in rituali apotropaici.[2]

Parcheggiai il mezzo e, col casco appeso al braccio, me ne andai all’incontro con i nonni in una piazza già gremita. Dopo lo sbaciucchiamento d’ordinanza (i nonni sono sempre i nonni) mia nonna si disse molto contenta di vedermi per quell’occasione e come pezzo forte della serata mi disse, sventolando il braccio in direzione del palco, che c’era anche la nipote di una sua cara amica, tale Elisa, mia coetanea ma soprattutto mia supposta nemesi, nei piani quinquennali che mia nonna faceva sulla propria progenie, in quanto questa fanciulla era spigliata, estroversa e politicamente impegnata coi giovani del partito: tutto il contrario di me, che ero solitaria, impacciata e, per quanto correttamente educata sin da piccina in reiterate feste dell’Unità e infarcita di sane letture e ottimi principii, del tutto incapace di aprirmi una prospettiva di intellettuale organica; mia nonna avrebbe ceduto un quinto della sua pensione pur di non vedermi così borderline, ai limiti della dolorosa apostasia, nemmeno pasoliniana perché priva del senso del fascino per la scomparsa delle lucciole, ma tant’è, quella ero e quella sono rimasta.

La piazza era divisa orizzontalmente in due da una fila di transenne. Al di qua delle transenne, più lontani dal palco, eravamo noi acusmatici; al di là delle transenne, sotto il palco, gli iscritti al partito e le loro pertinenze familiari e sociali (non dite clientelari che fa brutto). La nipote dell’amica di mia nonna era, ovviamente, lì dove sono molti i chiamati ma pochi gli eletti; e mia nonna, che smaniava per la mia inclusione, prese a sbracciarsi e a gridare come un’ossessa: “Elisaaaa! Elisaaaa! So’ mi, so’ ea Sandraaaaa![3]
Mio nonno, imperturbabile, usciva dall’orbita degli astanti a me visibili per evitare che lo si associasse in qualsiasi forma alla donna alla quale era pur sempre sposato da 48 anni, e andava sotto il Salone a farsi uno spritz. 
Io, essendo trattenuta dal braccio di mia nonna, quello che non mulinava nell’aria, guardavo terra e soffrivo.
Dopo una serie di invocazioni, Elisa si accorse di mia nonna e la salutò con la mano. 
Mia nonna, compiaciuta, continuò a vociare, stavolta indicandomi con ampi gesti: “Varda! Ghe xé ea Elena!” con ciò tagliando corto con secoli di dibattiti filosofici sulle relazioni tra segno, sostanza e significato e facendo sprofondare tutto ciò, e già che c’era anche me, nella categoria onnicomprensiva dell’imbarazzo.
Elisa si avvicinò mettendosi finalmente a portata di voce - di voce umana, intendo dire, non di smodate grida - e, appoggiandosi alla transenna e sorridendomi, mi disse: “Ma dai, che ci fai lì, vieni anche tu da questa parte che ci si vede meglio”. 
Non avevo da perdere che le mie catene.

E così, con poche e semplici e soteriche parole, varcavo in trionfo la soglia dei prescelti. 
Mi ritrovai, trasognata, a pensare a una serie di questioni che mi ponevo da anni e che ora avrebbero potuto trovare risposta. In che senso le merci possono dar prova di sé come valori d’uso, prima di potersi realizzare come valori? Perché la formazione di plusvalore non può essere spiegata per il fatto che i venditori vendono le merci al di sopra del loro valore né per il fatto che i compratori le comperino al di sotto del loro valore? Come si può rimediare al processo di espropriazione dell’operaio? Perché bisogna chiamare le fasi di transizione partitica La Cosa come un film di Carpenter[4]

O meglio, avrei varcato in trionfo la soglia dei prescelti, perché avevo sempre il casco al braccio, ero goffa, c’era gente, lo spazio aperto fra le transenne non era del tutto sufficiente a farmi passare di là, insomma, a metà dell’operazione inciampai da qualche parte e ruzzolai malamente sui piedi di un alto e ieratico signore.
“Màriavergine” pensai, e poi, rivolta all’alto e ieratico signore a cui avevo maciullato le dita, balbettai: “Mi scusi”.
Perché ci tengo a dire che mi hanno educata con tutti i modi. 
Mi rialzai e Elisa mi scosse, eccitatissima: “Hai visto chi è?”
Eh? Eh?
Ero ancora confusa per via che ero inciampata. Si riferiva all’alto e ieratico signore, che adesso fluttuava elegante tra la folla, allontanandosi da noi. 

Era Francesco De Gregori[5].

“Mi scusi” dissi ancora. Ma non mi sentì, o forse confuse i miei alibi e le sue ragioni.
“Ci ha autografato la bandiera” spiegò Elisa, con malcelato orgoglio.

Be', ciccia. Tu avrai la sua firma, ma lui ha le mie scuse.

Ed ero anche tra i prescelti. La vista mi si annebbiò, la testa crollava nel tormento di infinite altre domande. Come ci poniamo nel conflitto tra la soddisfazione dei bisogni e la produzione degli utili? Esistono leggi generali dell’economia? Quali sono le ragioni storiche che hanno portato il mercante a trasformarsi in capitalista? Centrosinistra si scrive con o senza trattino? Dopo sei ore perduto nella pioggia, Cesare ha finalmente mandato al diavolo il suo amore ballerina?
Mi faceva male un ginocchio perché l'avevo sbattuto sulle transenne.

Comunque non mi ricordo niente di quel che disse Veltroni. 





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Note
[1] per i non venetofoni: diminutivo di fiapo, fiacco, debole, senza sostanza. 
[2] “sei qua anche tu”. In effetti Prodi sopravvisse e vinse anche quella tornata elettorale, ma gli eventi politici successivi mi fanno sospettare comunque qualche intervento della sorte correlato alla simultanea presenza del mio parentado.
[3] Mia nonna si chiama Alessandrina, come un verso martelliano, ma accetta di esprimersi anche senza giustapporre dei settenari.  
[4] Adesso temo che siamo a Essi vivono
[5] Proprio lui