sabato 29 novembre 2014

Il regno animale va in paradiso

Non si può stare tranquilli un minuto. Papa Francesco ha detto che in Paradiso ci sarà posto anche per i nostri animali.
Augurandomi di finire in un paradiso diverso da quello in cui verrà allocato il cane dei vicini, ho pensato che questa roba nella Divina Commedia non c'è, e quindi la lacuna andava sanata.

Ecco allora il Canto XXXII- bis del Paradiso, in cui San Bernardo (che avrebbe anche un nome adatto a occuparsi di animali, in fondo) racconta a Dante questa novità teologica, e non pare mica tanto contento.

P.S. Io posso contare un pesce rosso suicida. Non so se si sia pentito all'ultimo, ma direi che comunque più su dell'Antipurgatorio non sale.


Paradiso, Canto XXXII bis

Bernardo proseguì citando Petri:
“Che qui sia loco di classe operaia
 - pur di fanti, villani o lavavetri -

dir non si puote, per quanto compaia
anco talor qualcuno; fe’ Francesco
che certo vi sarà il posto dell’aia,

poi che l’animali ch’ebbero desco
con noi a dimora terrena, vanno
a rimirare l’altissimo fresco

fiore divino che l’anime stanno
dei santi a contemplare; e poco vale
quel che il Filosofo sapeva, e sanno

i discepoli sui, che locale
d’anima e spirito l’uomo s’è fatto
solo, e non v’ha speranza d’animale.”

E non di quelli io vidi ritratto
ma d’altri mille che il cielo sottende
terreno: quivi fu il cane, lì ‘l gatto,

ma lì la tenia, la scrofa che rende
perle opportune; vi scorsi in ritardo
la piattola inimica alle pudende.

“E quanti e quali, sapiente Bernardo!
Qui sono i quattro tuoi gradi d’amore?” 
Dritto scorgeva lesto il gattopardo

che già Trinacria v’avea con dolore 
spedito, e le bestie che son uguali

e d’altri sire; ma di tanti mali
dir non si puote, poi ché s’è ben vero
che son tiranni, pure dai maiali

fuor si tira ogni cosa; ed è sincero
ch’àbbiano per questo posto divino.
Lo dissi a Bernardo: e quei, tristo e fero,

mi rispuose: “bene venga il suino,
fia ‘l suo lezzo; ma tutte queste mosche?”
E vidi allora passarmi vicino

torme di nubi fattesi più fosche
d’esapodi d’ogni guisa: zanzare,
ch’io già conobbi nelle rive tosche,

e s’aggiungea a quel funesto ronzare
qualcuna delle vespe degl’ignavi
salita in queste sfere per viaggiare.

E se lontane fur quelle dai favi
ben più lo fu dalla lussurïosa
Cleopatràs quel serpe; che di pravi

e rinomati immondi è curïosa
sorte di tanti animali: proposta
d’accoglierli si fe’ così focosa

che pur se maledetti nulla osta
ad averli in Paradiso: ed oltre
al porco, fu il cavallo e l’aragosta,

e in tutti i ruminanti non m’inoltre.
Ma poscia un vento freddo e maestrale
spirò e fecemi bramare la coltre:

“Del gelo non temere che fia male”
disse Bernardo “che non è favente
di morbi; è infatti altro l’animale

ed altro il batterio, qui non presente”.
Così calmato da saggia favella
io misemi a plorar riconoscente;

ma tosto vidi assiso in assicella
un essere sì strano ch’io non odo
il verso canosciuto ch’à in mascella.

Quindi chiesi: “Maestro, ch’è quel dodo?
non s’era estinto dall’ultimo viaggio
che feci oltremondano? Quale approdo

è questo per l’uccello?” Donde, saggio,
Bernardo a me: “O Tosco, guata tergo:
e fallo con dovizia di coraggio.

Anche s’estinti qui trovano albergo
gli animali vissuti: vede il sauro
come nell’Eden che fece Spilbergo,

ma pure d’altri s’è fatto tesauro,
sì come l’idra d'innumere teste,
la sfinge dei tebani ed il centauro.”

Ed io correva pensando alle geste
dei pagani; ma già mi richiamava
l’amor di seguitar con le richieste.

“È forse qui l’immensa e sì prava
bestia marina che nomar non voglio
che ‘l piede d’Achab feroce azzannava?

è giunta a questo purissimo soglio?
v’è dunque un mare, v’è dunque pietade?” 
E lungi egli mostrommi il capodoglio

sfiatar sereno in marine contrade
ed io tacito miravo, non pago,
e quindi fe’ a menarmi in altre strade.

Lenti giungemmo a quel che non un lago
né mare sembrava, ma ben più immenso:
fu in questi lidi ch’io ebbi l’imago 

di quel che l’animo chiedea di senso:
ecco ch’è l’Arca che passò il diluvio
ecco Noè che diparte in consenso

le bestie ch’à salvate. “Quale effluvio!”
lamenta Bernardo e ritorce il naso.
Io vedo che di tutto il gran profluvio

d’amor ferino ei ben, si dà il caso,
si dispiace ma non osa più dire:
e, pur bramando mirare il travaso

di bestie da quell’arca, vo a partire  
ed egli m’accompagna ben felice.
“Ora si va, volendosi finire”

ei mi disse “a vedere la radice
della divina luce. Se non puote
saper la bestia qual sia la nutrice

che, figlia, il proprio figlio porta in dote;
né credere che’l Cristo sia venuto
oppure sia venturo, per le ignote

bestie che son passate; deceduto
l’animale, pur qui tra noi si siede
e dei peccati non paga tributo. 

Senti l’immensa, la candida fede
di quegli ovini che cantan beati?
Ivi è l’agnello! Sia questa la sede

prescelta per le greggi; riservati
siano i posti divini degli armenti.
Soverchia il gran romore dei belati:

candida rosa non v’è parimenti
che al loro vello non ceda in candore."
Bernardo se ne andò con gran lamenti

pria che potesse illuminarmi il core 
che già credea d’esser preda di scherno.
“Non mai si cheta il bestiale fragore!

Vuolsi così, ma mi pare l’inferno”
dicea gemendo umanissimo idioma
scotendo il capo nell’intimo eterno
spirito ch’uom lo fece e mai si noma.

mercoledì 26 novembre 2014