giovedì 12 gennaio 2012

Sesso, dibattiti e rock and roll

Tre mie figuracce.

Cominciamo con il sesso.


Cinque o sei anni fa, in una serata che speravo foriera di sviluppi migliori per i miei ormoni depressi, mi ero agghindata con un body tutto frusciante, un pizzo, un raso, una pletora di gancetti, che diceva "libidine!" solo a guardarlo. Con gli intenti di Dita Von Teese e il savoir faire di Rosi Bindi, arrivo al dunque e mi incastro nel body. Panico. Forse avrei dovuto premettere che la mia motricità fine è tale che in molti dubitano che io sia dotata di pollice opponibile. Il fortunato moroso dell'epoca si offre di sgancettarmi, ma si incastra pure lui. Più mi divincolo e più mi imbozzolo, vedo già i giornali dell'indomani che titolano "muore incaprettata in un body", i miei parenti costernati davanti al feretro e un prete ivi giunto a sproposito che tuona: "Lussuria! Lussuria! il peccato capitale conduce i giovani alla morte!"
Ma quale lussuria: ira in quantità, alla faccia della superbia che mi aveva spinto a vestirmi in modo così ingestibile e dell'invidia di chi riusciva a destreggiarsi con quella roba! Mai metodo anticoncezionale fu più efficace.
Trentaquattro minuti dopo riesco a liberarmi. La serata è morta lì. Abbiamo bevuto il tè come due anziane signore inglesi (niente sesso, appunto).


Proseguiamo con il rock and roll.

Fine del secolo scorso (detta così, fa impressione). Avevo 17 o 18 anni ed ero andata al negozio di dischi coi soldi contati per prendermi un CD. Ivi giunta, mi accorgo che il CD è un album doppio e ovviamente non ho i soldi necessari. Comincio a ravanarmi in tutte le tasche alla ricerca di spiccioli, ne recupero un po', alla fine conto: mi mancano mille lire. Mille stramaledette lire. Sconsolata, penso che devo tornare a casa a mani vuote, quando in mano non mi salta il biglietto dell'autobus con cui avrei dovuto fare il viaggio di ritorno. Penso che potrei rivendermi il biglietto e tornare a piedi, non importa se sono sette km. Camminare fa bene. Mi metto quindi a tacchinare tutti gli avventori del negozio "posso venderle un biglietto dell'autobus?" con aria da tossica alla ricerca dell'ultima dose. Il commesso si insospettisce e mi acchiappa per la collottola. Mortificata, gli spiego il tutto. S'è impietosito e mi ha fatto lo sconto.
Non ho più messo piede in quel negozio.
Poi ha anche chiuso. Forse perché gli mancavano mille lire nei bilanci.


Infine, la mia figuraccia nel dibattito.

Venezia, Darwin Day 2010. Premiazione del concorso di poesia scientifica. Ero tra i premiati e quindi ero partita con Antonino la sera prima da Monopoli, approfittando che all'epoca il treno notturno Lecce-Trieste esisteva ancora. Dormivamo a Padova da mio papà e con un regionale ciuffettante eravamo sbarcati in Laguna. Di lì, col senso dell'orientamento che mi contraddistingue, dritti alla meta. Eravamo arrivati tardi, Antonino e io, e ci eravamo andati a sedere di lato, dove avevamo trovato posto; ossia all'altezza delle prime file, ma accampati ridosso al muro. Pioveva, faceva freddo, avevo dei vestiti improbabili addosso perché ormai tutto il mio guardaroba accettabile si era trasferito in Puglia e avevo dovuto sopperire al gelo dell'inverno veneto con mezzi abbastanza fortunosi. Dopo la premiazione è andato avanti il dibbbbattito e ha preso la parola un Poeta e Accademico, maiuscolo perché so che ci avrebbe tenuto a non mischiarsi col volgo; non chiedetemi chi fosse ma aveva tutta l'aria blasée e il maglioncino esistenzialista francese e il volto emaciato dallo spleen e il capello con frangia coreografica e l'ars rhetorica di chi è abituato a parlare, ad ascoltarsi e a piacersi moltissimo.
Ecco, in mezzo alla sala rapita e attenta questo Conferenziere attacca una disamina sul valore della parola che estrinsecata dal verbo viene vilipesa dalla banalità vetero-luddista della scelta estetica del medium pubblicitario, a seconda che la cogenza delle endiadi nella pura descrittività dell'Atto sia esprimibile o meno da concetti espunti a coppie o a terzetti in un movimento di chiasmo per il discrimine mitopoietico e-altre-parole-complicate-a-caso, al che io, che stavo seduta beneducata e che però sentivo vacillare la mia fiducia nella semantica e mi stavano venendo gli occhi della mucca che guarda passare il treno, ho esclamato con infinito candore:

"ma che cazzo sta dicendo?"



Silenzio e poi brusio nelle prime file.

Mi hanno sentito tutti.

Sguardi che si girano verso di me, e io che continuo -stavolta a mezza voce- a spiegare ad Antonino che non si capisce niente, che è vero che non si capisce niente, che quella è aria fritta, vero che è aria fritta?

La mia scalata al mondo intellettuale dev'essere finita lì.

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