sabato 23 maggio 2020

Requiem per l'amatriciana

REQUIEM PER L'AMATRICIANA
di Elena Tosato featuring Giorgio Agamben

Come avevamo previsto, l’amatriciana si fa sempre più spesso con la pancetta. Quello che per un osservatore attento era evidente, e cioè che la cosiddetta libertà culinaria sarebbe stata usata  come pretesto per la diffusione sempre più pervasiva di ingredienti eterodossi, si è puntualmente realizzato.
Non c’interessa qui la conseguente trasformazione dell’amatriciana, in cui l’elemento del guanciale, in ogni tempo così importante nel rapporto fra cuochi e semplici appassionati, scompare definitivamente, come scompaiono le discussioni collettive nei corsi di cucina, che erano la parte più viva dell’insegnamento. Fa parte della barbarie alimentare che stiamo vivendo la cancellazione  dalla vita di ogni esperienza dei sensi e la perdita del gusto, durevolmente  imprigionato in un’accondiscendenza facile alla reperibilità nei supermercati. 
Ben più decisivo in quanto sta avvenendo è  qualcosa di cui significativamente non si parla affatto, e, cioè, la fine della tradizione culinaria come forma di vita. L’amatriciana è nata nel Lazio come specialità della zona di Amatrice – provincia di Rieti –  e a questa deve il suo nome. Quella dell’amatriciana era, cioè, innanzitutto una forma di vita, in cui determinante era certamente la provenienza dalla gricia, ma non meno importante erano l’incontro e l’assiduo scambio tra Rieti e Napoli, che ha consentito l’unione tra il guanciale e il pomodoro San Marzano. Questa forma di vita si è evoluta in vario modo nel corso dei secoli, ma costante, dal Settecento all’Italia post unitaria, era la dimensione sociale del fenomeno. Chiunque ha mangiato un piatto di bucatini all’amatriciana sa  bene come per così dire sotto i suoi occhi si legavano amicizie e si costituivano, secondo gli interessi culturali e politici, piccoli gruppi di affezionati ed estimatori,  che continuavano a incontrarsi anche dopo la fine del pasto.
Tutto questo, che era durato per quasi tre secoli, ora finisce per sempre. 
Di  ogni fenomeno sociale che muore si può  affermare che in un certo senso meritava la sua fine ed è certo che l’amatriciana era giunta a tal punto di diffusione e di ignoranza che la forma in cui arrivava nel piatto si era conseguentemente altrettanto immiserita. Tre punti devono però restare fermi:
1. i cuochi che accettano – come stanno facendo in massa – di sottoporsi alla nuova dittatura alimentare e di sostituire il guanciale con la pancetta sono il perfetto equivalente dei docenti universitari che nel 1931 giurarono fedeltà al regime fascista. Come avvenne  allora, è probabile che solo quindici su mille si rifiuteranno, ma certamente i loro nomi saranno ricordati accanto a quelli dei quindici docenti che non giurarono.
2. I buongustai che amano veramente la tradizione culinaria locale dovranno rifiutare di cibarsi di pietanze così trasformate e, come all’origine, costituirsi in nuove tabernae, all’interno delle quali soltanto, di fronte alla barbarie alimentare, potrà restare viva la parola del passato e nascere – se nascerà – qualcosa come una nuova cultura.
3. E non provate a metterci la cipolla, stronzi.

Nessun commento:

Posta un commento