lunedì 13 maggio 2019

Ermione nel pineto

Piove.
E siccome piove spesso, e da un po', e nonostante sia maggio, mi è venuto da pensare alla Pioggia nel pineto.
Ermione, dico. Questa figura iconica che sta lì a prendersi la pioggia con Gabriele D'Annunzio, che ti farà pure le coccole aulenti ma che di sicuro di tanto in tanto se ne esce con un "Memento audere semper" o roba simile che rovina tutta l'atmosfera, e mentre è lì che ti guarda le mandorle acerbe dei denti ti va a parlare di volantinare a Fiume.
Ermione, figura muta e paziente, creatura terrestre, avrai mai risposto?
Te lo sarai mai levato dai piedi, questo aulico compagno di scampagnate? Gli avrai mai detto una buona volta sì ok, la rana che gracida, il suono del mirto, le tamerici salmastre e arse, mo' però fammi rientrare che mi sono infradiciata tutti i vestimenti leggeri e mi viene una bronchite?
Niente, la Storia non ci racconta cosa fece Ermione.

E allora lo racconto io.
Questa è la risposta di Ermione, ove si evincono anche particolari della storia di lui, e quindi anche perché lei alla fine gli abbia detto guarda Gabrie', s'è fatta 'na certa.



Taccio. Su le soglie
del bosco mi godo
parole che dici,
pur vane, di frodo,
sì come l’alcove
che vuoi tra gocciole e foglie
silvane.
Ascolto. Piove
dai nembi più sparsi,
piove sugli artifici
sfrontati o scarsi,
sui tuoi confini
scagliosi ed irti.
Non so che dirti;
vicini
ci siamo visti intenti
a dirci stolti,
tra i ginepri folti
le coccole aulenti
non più toccano i volti
lontani,
ed anche queste mani
ignude
tra i nostri vestimenti
leggeri
non hanno più pensieri
né l’anima prude,
mio bello,
pure senza l’ombrello
che ieri
si chiuse, che oggi si schiude
e s’impone.

Odo quei fiati monchi
per la voluttuaria
postura
priva di costola dura.
E vaghi nell’aria che già ti confonde
partendo da Ronchi:
da Fiume risponde
al canto il vanto
che già t’assale
nel Vittoriale;
non t’impaura
quest’ultima estate.
Da Vate
risuona quel tuo spirto,
ed altro suono scabro
ti fa da voce, stromenti
diversi
di vanità non mai finita.
E persi
ci siam nello strepito
di fretta,
d’arborea sorte irridenti;
e il tuo volto ebro
di sé si fa foggia,
di quanto voglia.
Senza pur chiome
brandisci il tuo nome
qual arma imperfetta:
ché fosti tu Rapagnetta
detto già come.
“Ermione!”

M’invochi, t’ascolto. Ricordo
di te pur m’assale
e il labbro per poco
mi mordo,
si fa sotto un pianto
che cresce;
e un canto vi si mesce
più roco,
e non mi fa più male,
son umide ombre remote:
ti scorgo, sei cuoco
che nomini degne
parole a te note,
ancor verghi l’insegne,
di tramezzini consegne
imponi il novel nominare;
si scorge per tutte le viste
sbordare
l’immensa foggia
che insiste
per muta Cabiria:
sé dice Maciste,
più forte, già forte.
Che sorte:
pretendi valchiria
la donna, o ancora forma
di ninfa, di musa,
di scusa
ch’è per te solo ed esiste,
chi sa dove, chi sa dove!
E piove e inventi l’orma
d’Ermione.

Piove sulle mie forme vere
sì che par ch’io pianga,
ma di piacere: ché, stanca
d’essere l’orlo del niente
par da scorza io esca
e nuova vita viene in me fresca
aulente,
il cuor nel petto è come pesca
intatta,
tra le palpebre gli occhi
son come polle tra l’erbe,
i denti negli alveoli
son come mandorle acerbe,
e vado soddisfatta
da te infine disciolta,
dai motti d’onor rude,
dai suoni resi creoli
da quel latino in tocchi
sbucato in ogni dove!
E piove l’ultima volta:
domani
ti guarderai quelle mani
ignude,
e quei tuoi vestimenti
leggeri,
e i troppi pensieri:
portati e schiudi
l’ombrello,
poeta mio bello
che ieri
m’illuse, che oggi s’illude.

Ermione


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