Mi telefona mio padre dalla montagna. Mio padre va spesso in montagna. "Sai dove sono stato oggi? Al rifugio Tre Scarperi. Ti ricordi il rifugio Tre Scarperi?"
E io mi ricordo, sì, mi ricordo. Mi ricordo che avevo otto anni o nove, e mio padre aveva portato me e un mio amico d'infanzia su al rifugio Tre Scarperi, in un volenteroso quanto inutile tentativo paideutico di farmi amare la montagna, a me la montagna piace solo quando canto i cori di montagna di ritorno dalla montagna con la prospettiva di stendere i piedi e riposarmi a casa mia in pianura, e la montagna poi mi fa tanto sanatorio di Davos, incanti, magie, guerre e tisi, insomma, ci portò su noi due bimbi tutti attrezzati e ordinati al rifugio Tre Scarperi. Il mio amico chiacchierava e faceva la radiocronaca della gita, mio padre guidava la spedizione, io meditavo sui massimi sistemi, non dico come quella volta anni dopo quando mi fece fare le gallerie del Pasubio e avevo l'unghia incarnita sia di qua che di là, e anche quel po' di claustrofobia tenuta a bada dai sensi di colpa perché ne erano morti a manciate dentro alle gallerie del Pasubio anche solo per scavarle mentre gli austriaci gli sparavano addosso; ma meditavo, ho sempre meditato molto anche da piccola, e guardavo le rocce, la vegetazione, l'aria limpida, un passo dietro l'altro, e risparmiavo il fiato solo per chiedere "Papà quanto manca?"
E io mi ricordo, sì, mi ricordo. Mi ricordo che avevo otto anni o nove, e mio padre aveva portato me e un mio amico d'infanzia su al rifugio Tre Scarperi, in un volenteroso quanto inutile tentativo paideutico di farmi amare la montagna, a me la montagna piace solo quando canto i cori di montagna di ritorno dalla montagna con la prospettiva di stendere i piedi e riposarmi a casa mia in pianura, e la montagna poi mi fa tanto sanatorio di Davos, incanti, magie, guerre e tisi, insomma, ci portò su noi due bimbi tutti attrezzati e ordinati al rifugio Tre Scarperi. Il mio amico chiacchierava e faceva la radiocronaca della gita, mio padre guidava la spedizione, io meditavo sui massimi sistemi, non dico come quella volta anni dopo quando mi fece fare le gallerie del Pasubio e avevo l'unghia incarnita sia di qua che di là, e anche quel po' di claustrofobia tenuta a bada dai sensi di colpa perché ne erano morti a manciate dentro alle gallerie del Pasubio anche solo per scavarle mentre gli austriaci gli sparavano addosso; ma meditavo, ho sempre meditato molto anche da piccola, e guardavo le rocce, la vegetazione, l'aria limpida, un passo dietro l'altro, e risparmiavo il fiato solo per chiedere "Papà quanto manca?"
E mio padre s'inventò una misura del tempo plastica e proteiforme, un orologio molle di Dal gestito a parole, e disse che mancava un'oretta, e il tempo passava e mancava ancora un'oretta, e sempre un'oretta, e di nuovo un'oretta e questa cazzo di oretta del tempo perduto che meno male che non avevo ancora letto Proust. Che, infatti, andava al mare.
Poi arrivammo al rifugio, mangiammo, aspettammo -altre orette- che venisse sera e andammo a dormire in questa camerata spartana e ruvida come le cose di montagna, vi giuro che d'ora in poi leggo tutto Rigoni Stern ma fatemi riposare, e io non chiusi occhio perché c'era un altro escursionista che russava, però c'erano i letti a castello e, lo confesso, fu bello davvero.
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