giovedì 18 febbraio 2016

Berlinguer, De Gregori e gli acusmatici


Nell’Anno di Grazia 1999 mi trovavo, in un tiepido pomeriggio di giugno, per le strade del centro di Padova sul mio motorino, un Ciao Piaggio bianco comprato di seconda mano qualche anno prima, che sputacchiava e vibrava senza arrivare a lambire i quarantacinque all’ora e col quale avevo già avuto due incidenti, ma a cui volevo bene perché mi portava ovunque volessi. Avevo appuntamento con i miei nonni sotto alla Loggia della Gran Guardia perché in piazza dei Signori c’era la commemorazione dei quindici anni della morte di Berlinguer e mia nonna, che politicamente in famiglia è Custode dell’Ortodossia, non si sarebbe mai potuta perdere l’evento, anche se a ben vedere l’orazione sarebbe stata a carico di Veltroni, “che’l me pare fiapetto[1]”. 
All’ultimo comizio di Berlinguer, Padova 1984, mia nonna non era peraltro stata presente; c’erano invece mio padre e suo fratello, che da allora per scaramanzia non erano più andati a un comizio insieme, salvo ritrovarsi per caso in piazza a sentire Prodi nel 1996, guardarsi in faccia, leggervisi il reciproco terrore, esclamare “sito qua anca ti” e sperare per il meglio eccedendo in rituali apotropaici.[2]

Parcheggiai il mezzo e, col casco appeso al braccio, me ne andai all’incontro con i nonni in una piazza già gremita. Dopo lo sbaciucchiamento d’ordinanza (i nonni sono sempre i nonni) mia nonna si disse molto contenta di vedermi per quell’occasione e come pezzo forte della serata mi disse, sventolando il braccio in direzione del palco, che c’era anche la nipote di una sua cara amica, tale Elisa, mia coetanea ma soprattutto mia supposta nemesi, nei piani quinquennali che mia nonna faceva sulla propria progenie, in quanto questa fanciulla era spigliata, estroversa e politicamente impegnata coi giovani del partito: tutto il contrario di me, che ero solitaria, impacciata e, per quanto correttamente educata sin da piccina in reiterate feste dell’Unità e infarcita di sane letture e ottimi principii, del tutto incapace di aprirmi una prospettiva di intellettuale organica; mia nonna avrebbe ceduto un quinto della sua pensione pur di non vedermi così borderline, ai limiti della dolorosa apostasia, nemmeno pasoliniana perché priva del senso del fascino per la scomparsa delle lucciole, ma tant’è, quella ero e quella sono rimasta.

La piazza era divisa orizzontalmente in due da una fila di transenne. Al di qua delle transenne, più lontani dal palco, eravamo noi acusmatici; al di là delle transenne, sotto il palco, gli iscritti al partito e le loro pertinenze familiari e sociali (non dite clientelari che fa brutto). La nipote dell’amica di mia nonna era, ovviamente, lì dove sono molti i chiamati ma pochi gli eletti; e mia nonna, che smaniava per la mia inclusione, prese a sbracciarsi e a gridare come un’ossessa: “Elisaaaa! Elisaaaa! So’ mi, so’ ea Sandraaaaa![3]
Mio nonno, imperturbabile, usciva dall’orbita degli astanti a me visibili per evitare che lo si associasse in qualsiasi forma alla donna alla quale era pur sempre sposato da 48 anni, e andava sotto il Salone a farsi uno spritz. 
Io, essendo trattenuta dal braccio di mia nonna, quello che non mulinava nell’aria, guardavo terra e soffrivo.
Dopo una serie di invocazioni, Elisa si accorse di mia nonna e la salutò con la mano. 
Mia nonna, compiaciuta, continuò a vociare, stavolta indicandomi con ampi gesti: “Varda! Ghe xé ea Elena!” con ciò tagliando corto con secoli di dibattiti filosofici sulle relazioni tra segno, sostanza e significato e facendo sprofondare tutto ciò, e già che c’era anche me, nella categoria onnicomprensiva dell’imbarazzo.
Elisa si avvicinò mettendosi finalmente a portata di voce - di voce umana, intendo dire, non di smodate grida - e, appoggiandosi alla transenna e sorridendomi, mi disse: “Ma dai, che ci fai lì, vieni anche tu da questa parte che ci si vede meglio”. 
Non avevo da perdere che le mie catene.

E così, con poche e semplici e soteriche parole, varcavo in trionfo la soglia dei prescelti. 
Mi ritrovai, trasognata, a pensare a una serie di questioni che mi ponevo da anni e che ora avrebbero potuto trovare risposta. In che senso le merci possono dar prova di sé come valori d’uso, prima di potersi realizzare come valori? Perché la formazione di plusvalore non può essere spiegata per il fatto che i venditori vendono le merci al di sopra del loro valore né per il fatto che i compratori le comperino al di sotto del loro valore? Come si può rimediare al processo di espropriazione dell’operaio? Perché bisogna chiamare le fasi di transizione partitica La Cosa come un film di Carpenter[4]

O meglio, avrei varcato in trionfo la soglia dei prescelti, perché avevo sempre il casco al braccio, ero goffa, c’era gente, lo spazio aperto fra le transenne non era del tutto sufficiente a farmi passare di là, insomma, a metà dell’operazione inciampai da qualche parte e ruzzolai malamente sui piedi di un alto e ieratico signore.
“Màriavergine” pensai, e poi, rivolta all’alto e ieratico signore a cui avevo maciullato le dita, balbettai: “Mi scusi”.
Perché ci tengo a dire che mi hanno educata con tutti i modi. 
Mi rialzai e Elisa mi scosse, eccitatissima: “Hai visto chi è?”
Eh? Eh?
Ero ancora confusa per via che ero inciampata. Si riferiva all’alto e ieratico signore, che adesso fluttuava elegante tra la folla, allontanandosi da noi. 

Era Francesco De Gregori[5].

“Mi scusi” dissi ancora. Ma non mi sentì, o forse confuse i miei alibi e le sue ragioni.
“Ci ha autografato la bandiera” spiegò Elisa, con malcelato orgoglio.

Be', ciccia. Tu avrai la sua firma, ma lui ha le mie scuse.

Ed ero anche tra i prescelti. La vista mi si annebbiò, la testa crollava nel tormento di infinite altre domande. Come ci poniamo nel conflitto tra la soddisfazione dei bisogni e la produzione degli utili? Esistono leggi generali dell’economia? Quali sono le ragioni storiche che hanno portato il mercante a trasformarsi in capitalista? Centrosinistra si scrive con o senza trattino? Dopo sei ore perduto nella pioggia, Cesare ha finalmente mandato al diavolo il suo amore ballerina?
Mi faceva male un ginocchio perché l'avevo sbattuto sulle transenne.

Comunque non mi ricordo niente di quel che disse Veltroni. 





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Note
[1] per i non venetofoni: diminutivo di fiapo, fiacco, debole, senza sostanza. 
[2] “sei qua anche tu”. In effetti Prodi sopravvisse e vinse anche quella tornata elettorale, ma gli eventi politici successivi mi fanno sospettare comunque qualche intervento della sorte correlato alla simultanea presenza del mio parentado.
[3] Mia nonna si chiama Alessandrina, come un verso martelliano, ma accetta di esprimersi anche senza giustapporre dei settenari.  
[4] Adesso temo che siamo a Essi vivono
[5] Proprio lui

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