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Breve storia di una storia breve
Lo Scrittore di Storie Brevi si era alzato alle nove, pieno di acciacchi e lamenti per la sua condizione avversa. “Come sto male” aveva subito cominciato a dire.
Un’altra notte era trascorsa senza che gli venisse uno straccio di idea per la sua storia breve, se non un pulviscolo di immagini piene di leziosità e stereotipi. Si era addormentato la sera precedente con la testa riversa sulla scrivania, si era svegliato tutto ammaccato alle due e venti e si era messo a letto con il gravame della propria inadeguatezza che gli serrava la gola, il cuore e i visceri.
Una volta in piedi, al mattino, si rese conto della disgrazia che lo attanagliava e si mise a maledire la propria cattiva stella e al contempo a invocare le Muse, come faceva sempre. Le Muse, dal canto loro, erano sempre state prodighe di consigli con lui: lo vezzeggiavano, lo coccolavano, gli dicevano questo e quello, Tersicore gli aveva perfino insegnato a ballare il tango, il che gli era stato di qualche aiuto in società. Quella mattina però era una mattina talmente nefasta che nemmeno le Muse sembravano dargli retta; e lui aveva un bel piangere, e un bell’implorare, e un bel prodigarsi in invocazioni liriche e piene di calore e metafore e arguti stilemi, giusto per tenere in allenamento il proprio lessico, ma quelle zitte, non un fiato, non una speranza.
Fu soltanto verso le dodici e un quarto, quando l’infelice s’era ormai rassegnato a un’altra mezza giornata persa tra dolori e frustrazioni, che la porta di casa si aprì e un bel giovane, alto e vagamente sornione si ritrovò all’improvviso in mezzo alla stanza. L’appartamento dello Scrittore di Storie Brevi era piccolo e disordinato: la luminosa bellezza del ragazzo sembrava dargli un tocco etereo e lo riempiva più di quanto le sue cose avessero mai fatto in anni di sedime.
“Prima che me lo domandi” disse il giovane, con una voce leggermente seccata e trascinando le parole “sono Febo Apollo; e sì, questa è un’allucinazione e sì, hai esagerato con gli ansiolitici e ancora sì, non avresti dovuto berci dell’alcol sopra. Comunque sono qui” aggiunse e, senza fare troppi complimenti, pigliò una sedia e vi si sedette sopra “e sono qui per darti una mano. Permetti che ti presenti...” disse, e indicò tre uomini che, in modo altrettanto misterioso, erano comparsi dietro di lui. Lo Scrittore di Storie Brevi, che fino a due minuti prima s’era immaginato di doversi preparare due spaghetti con quell’avanzo di pomodoro che c’era in frigo, e non si aspettava certo un simile via vai di personaggi in giro per la stanza, era pallido come un cencio e altrettanto molle.
“Siediti, siediti, che hai una brutta faccia” lo apostrofò il dio, e lo Scrittore si sedette tutto tremante sulla sua solita poltrona. “Allora, dicevo, permetti che ti presenti” continuò Apollo virando su un tono solenne “i signori Anton Čechov, Raymond Carver e Ernest Hemingway. Sono qui per darti una mano a scrivere questa benedetta storia breve. Li ho fatti venire perché davvero non se ne può più delle tue invocazioni alle Muse. Ma ti credi che non abbiamo altro da fare, noialtre divinità?”
“Chiedo scusa” mormorò lo Scrittore, cercando avidamente con la coda dell’occhio i tre Esimi Colleghi per sincerarsi che, pur nel delirio allucinatorio, fossero proprio loro.
“Sarebbe dovuto venire anche Bukowski, ma naturalmente dopo la corsa dei cavalli era ubriaco fradicio e lo abbiamo lasciato lì” riferì Apollo. Quindi si alzò in piedi, sfavillante e superbo, e fece cenno ai suoi accompagnatori di occupare il divano.
“Sarà meglio che cominciamo subito” disse poi.
Lo Scrittore si agitò moltissimo, prese un quaderno, una penna, sudò, sorrise, singhiozzò, disse grazie, balbettò, infine aprì le orecchie e pensò che mai, mai in vita sua aveva avuto una tale fortuna.
Nemmeno aveva fatto in tempo ad appoggiare la penna sul foglio che si trovò sotto un fuoco di domande. I suoi ospiti si stavano dando da fare come se non ci fosse stato un domani.
“Immagino tu non sia mai stato in guerra” disse Hemingway prendendo la parola per primo.
“In guerra, no, certo che no, mio Dio” balbettò lo Scrittore.
“E non avrai nemmeno mai fatto a pugni” proseguì l’altro.
Lo Scrittore inorridì: “Per carità!”
Hemingway elencò: “Suppongo inoltre che la corrida non ti interessi”
Lo Scrittore gli rispose con puntiglio: “Sono per i diritti degli animali. Io credo che...”
“Cago nel sugo delle cose che credi! A pesca, dimmi che sei stato almeno a pesca” sbraitò quello.
“Ma no... da bambino ho pescato dei paguri, per gioco...” lo Scrittore si fece vago.
Hemingway sbottò: “Paguri! Paguri! Lo avete sentito? No, mi dispiace, io...” e si alzò, senza terminare la frase, più che deciso a infilare la porta e a ritornarsene da dove era venuto.
Fu allora che il secondo, che si stava lisciando pensosamente la barba, intervenne.
“Aspetta, aspetta” disse Čechov, e si rivolse allo Scrittore: “Mi dica, buon uomo, è mai stato malato di nervi, e ne ha mai parlato? è mai stato in un ospedale psichiatrico?”
“Sono ansioso, dicono, ma quanto a ricoveri... no, sono stato solo in ambulatorio, mai nessun ricovero, e non sono capace di parlare di crisi nervose senza cadere nella lagna più sterile” rispose lui.
Apollo, non visto, alzò gli occhi al cielo.
Čechov proseguì con pazienza: “È mai stato nella steppa, forse?”
“Non si può dire, ma sono stato qualche volta in campagna” spiegò lo Scrittore, e mentre parlava aveva la netta impressione che tutte le parole che gli uscivano dalla bocca quel giorno fossero irrimediabilmente, orrendamente sbagliate.
“Con quel volto che promana acidi biliari, amico mio, lei mi sembra poco incline anche all’uso dell’umorismo e del paradosso.” Il russo era con ogni evidenza alla sua ultima cartuccia.
“Non sono la mia gloria maggiore” accondiscese lo Scrittore, vergognoso.
Čechov allargò le braccia e tacque. Hemingway gli scoccò un’occhiatina soddisfatta.
Lo Scrittore allora implorò: “Ma io ho bisogno di un aiuto! Oh, davvero, vi prego, aiutatemi. Non so nemmeno da che parte cominciare.” E, siccome Carver era quello che era rimasto zitto, lo Scrittore di Storie Brevi lo guardò con un’intensità umettata di lacrime.
“Scene di vita quotidiana: comincia da quelle. Abiti in provincia, è già un bel vantaggio” fece Carver, semplicemente.
“Ma ho paura che poi non interessi a nessuno” obiettò lo Scrittore, che al di fuori delle sue fantasie aveva una vita noiosissima.
Carver non gli dette retta e, scrollate le spalle con noncuranza, gli consigliò: “Un taglio obliquo sulle scene di vita quotidiana, prova così: sii onesto, ama gli uomini che cercano di ricominciare, concentrati sulla quieta, mansueta disperazione dell’uomo, perché troverai sempre un motivo per cui...”
Hemingway borbottò fra sé, ma non abbastanza da non essere sentito: “Indiani. Non ha nemmeno conosciuto degli indiani!”
Febo Apollo era andato a servirsi da bere. La porta dell’appartamento era rimasta aperta e, proprio quando il dio si stava portando alle labbra un bicchiere di rum di pessima qualità e faceva per offrirne agli altri, un signore dall’aria distinta, che si muoveva lentamente a causa della vista molto debole, fece capolino sulla soglia.
“M’è stato difficile trovare la strada” disse per giustificarsi, quindi entrò e andò a sedersi vicino agli altri “Mi ero perso tra gallerie esagonali e sentieri che ad ogni passo si biforcavano”.
Apollo fece un ampio gesto col braccio indicando il nuovo venuto e, rivolgendosi allo Scrittore, attaccò: “Be’, non era previsto, ma già che è qui ti presento...”
“Jorge Luis Borges” disse lo Scrittore, sempre più terreo. “L’avevo riconosciuto.”
Borges si compiacque. “Dicevo, ho percepito la crisi di quest’uomo, e sono intervenuto. L’ho visto re, l’ho visto sacerdote e schiavo, smarrito nelle minuzie delle sue vicende. Mi dica” disse, rivolgendo gli occhi quasi ciechi allo Scrittore “Lei legge, mi figuro. Lei coltiva quel morbo rigoglioso che è l’immaginazione.”
Lo Scrittore quasi crollò in ginocchio: “Sì, sì!”
Borges allora: “E dunque, vi si appigli. Conoscerà per certo che v’è, nella genesi della dinastia Han-Pûkh, una storia che rimanda alla sua, mio caro amico. È tràdita nell’opera Irenea o Dei sogni caotici di Marcel de Saint-Palanche, un oscuro libercolo che trovai un giorno nella vecchia villa della famiglia dei Maravan a Abbey-sur-Mer, in un vetusto baule dai colori screziati dei tegumenti della passiflora e che odorava delle mani mai guardinghe dei doganieri. Essa parla di un giovane principe ereditario, un uomo dal cuore di serpe consacrato alla protervia, per cui la vanità e la corruzione erano parte di quel processo inaccessibile ai sogni umani che...”
“Complicato” mormorò lo Scrittore, ingarbugliandosi con la penna mentre cercava di prendere appunti; alternava momenti di estasi ad altri di scoramento e già a ‘passiflora’ si era perso.
Borges mostrò d’essere lievemente adontato per l’improvvida interruzione, smarrì il filo della storia e ne cominciò un’altra, che parlava di spade e specchi e di un sacrificio che, rievocato in una cerimonia del 1832, aveva indotto un tal signor Pedro Delgado a chiedere a un non so qual barone Raven quale fosse l’ipotesi geometrica che soggiaceva a certe sue teorie sull’universo.
Le sue parole avevano infervorato l’ambiente. Gli altri scrittori s’erano messi a confabulare vivacemente e a dire chi questo, chi quello; solo lo Scrittore di Storie Brevi taceva, umile.
Febo Apollo poggiò il bicchiere, allarmato da uno scalpiccio: dalla porta, rimasta ancora aperta, stavano cominciando ad occhieggiare le immagini familiari di Franz Kafka ed Edgar Allan Poe che s’avvicinavano senza fretta parlottando ora d’un castello, ora d’una pestilenza sanguinosa; “Ma prego, signore, dopo di Lei” sbottava Guy de Maupassant che, cercando nel frattempo di spiegare alcuni fatti della guerra franco prussiana ad un vicino affacciatosi sulle scale richiamato dal gran trambusto, s’era poi messo dar sulla voce ad un trafelato Luigi Pirandello il quale, con un pacco di novelle sotto il braccio, correva ad accertarsi dello stato psichico del povero compatriota: e cento altri ne arrivavano, senza pace, noti o ignoti, colmi di talento o poveri di spirito, si scorsero perfino Chaucer e Boccaccio, arrivati da lontano, che facevano un cenno con la mano per farsi notare. C’era sin dall’androne un bisticcio di parole, accenti, teorie e mozzichi di brani da far venire il mal di testa.
Il dio sbiancò in volto e si slanciò imperioso a richiudere l’uscio. “Basta, basta!” gridò. “Che ho fatto, povero me.”
Tutti quelli rimasti nella stanza lo guardarono con timore.
“Uscite, su, andatevene” biascicò Apollo. La voce gli sgorgava amara.
“Ma non abbiamo finito” provò a dire Borges.
“Fuori, ho detto” lo zittì Apollo.
I quattro sacri morti, interdetti e offesi, non ebbero di che replicare. Anche lo Scrittore di Storie Brevi, squassato nell’animo e nelle membra da tutto quel cataclisma emotivo, non poté far altro che restarsene accasciato nel proprio disonore e pose lo sguardo, colpevole, a terra. Quando rialzò il naso le apparizioni erano scomparse: solo Apollo era ancora lì, appoggiato ad una credenza, con un altro bicchiere di rum in mano e l’aria di chi la sa lunga.
“Un disastro su tutta la linea; non imparerai niente, così” disse il dio. “E io che avevo sperato che parlare con alcuni dei maggiori scrittori di racconti degli ultimi centocinquant’anni t’avrebbe fatto bene.”
“Mi dispiace” fece lo Scrittore. Era affranto.
“Ah, lascia stare. Piuttosto: lo sai come mi chiamano?” chiese Apollo. In fondo aveva un buon cuore.
“In tanti modi” prese tempo l’altro, cercando di frugare nei suoi ricordi ginnasiali per ricordarsi tutti gli epiteti del dio.
“Mi chiamano il Guaritore” disse Apollo tutto orgoglioso “E quindi ti guarirò dalla tua abulia.”
Lo Scrittore si illuminò di un rozzo baluginio: “Dice davvero?”
Apollo fece spallucce e tracannò quanto aveva in mano. “Questo rum fa schifo” disse.
Lo Scrittore si mise attento, con il quaderno sulle ginocchia e la penna sospesa a mezz’aria.
“Prendi nota” fece il dio. “Innanzitutto, il contenuto. Come hai intenzione di procedere?”
“Eh, mah” rispose lo Scrittore di Storie Brevi. “Ci vuole un’idea forte, una sola idea forte, da sviluppare con armonia e curiosità. E poi lo stile dev’essere tale che...”
“Zitto!” lo rimbrottò Apollo. “Non sai niente. Non è più così che si fa, adesso. Adesso si fa diversamente.”
Lo Scrittore sgranò gli occhi: “Ah sì?”
“Eh già!” disse Apollo. “Lascia stare sia lo stile che il contenuto. Adesso si fa così: prendi un fatterello qualsiasi, una robetta insignificante, o un aneddoto che solo a te sembra curioso, lo sbatti lì in mezzo a parole desuete, qualche parolaccia fuori contesto, degli ammiccamenti al lettore, ma pochi, pochissimi, mai diretti, un po’ di aggettivi che così si vede che li conosci, o almeno che sei in grado di sfogliare un vocabolario dei sinonimi...”
“...Di compulsare un vocabolario!” esclamò lo Scrittore. “Compulsare è più appropriato di sfogliare.”
“La pedanteria va utilizzata solo quando può essere davvero irritante” spiegò Apollo “E sai perché? Perché così il lettore si annoia, e se si annoia è paradossalmente portato a pensare che sta leggendo qualcosa di profondo. Che te ne pare di questa spiegazione?”
“Pedante” rispose lo Scrittore.
“Visto? Avevo ragione” disse Apollo con un sorriso di trionfo.
“Non mi piace” si lamentò lo Scrittore.
“Zitto e impara” lo rimbeccò l’olimpico “C’è un’altra cosa di cui ti devo assolutamente mettere a parte: l’uso della punteggiatura e dei verbi. I verbi vanno omessi, quanto più possibile: descrivi solo con aggettivi. Tanto non occorre che accada qualcosa: descrivi e basta, l’ambiente, i personaggi, queste cose qui. E la punteggiatura: orrore! dev’essere ridotta al solo punto, con qualche eccezione per le virgole o per i tre puntini di sospensione. Ma il solo punto è più che sufficiente.”
Lo Scrittore lo guardava grattandosi la testa con la penna.
Apollo fu mellifluo: “Non ti convince?”
“Manco per sogno” protestò lo Scrittore cercando di difendere la propria dignità professionale.
Febo Apollo lo guardò con commiserazione. “Prova, dai.”
Lo Scrittore tentennò. “Devo?”
Il dio lo incitò con un brusco gesto della mano. “Vai, bello. Vai!” Chissà se era così che faceva partire il cocchio con cui faceva sorgere il sole, si disse lo Scrittore, o se era così che aveva tramortito il povero Marsia, quella volta.
“Allora provo” fece, un po’ titubante. “Con che cosa comincio?”
“Mah, non so” rispose Apollo. “Prova a descrivere questo” e gli mise in mano il suo bicchiere di rum, che s’era nel frattempo riempito per la terza volta.
“È... è un bicchiere di rum” mormorò lo Scrittore.
“Continua, ricama. Raccontaci sopra una storia. Crepuscolare. O disincantata. O amorale. O... cazzo! Non posso dirti tutto io. Descrivi.”
“È... un bicchiere. Un liquido. Un liquido che sa di fuoco e di tormento, che sa...”
“Niente virgole! I punti!”
“Ah sì. I punti. Un liquido che sa di fuoco e di tormento. So che è qui. So che dovrei essere altrove. Mi specchio nel vetro. Che c’è, lo spettro di qualcosa, le parole che uso, lo scherno della mia esistenza. La mia immagine, frammentata, mi guarda di rimando. È tutto un vetro rotto. La vita è un vetro rotto. Come vado?”
“Bene, ottimamente direi. Però mettici più punti, mi raccomando” lo complimentò Apollo.
“Adesso devo far succedere qualcosa?”
“Non sia mai! La trama è un vezzo che consola i perdenti. Vai col flusso di coscienza, ora! Ma rivisitato! Che non suoni vecchio! Che suoni tuo!”
E allora lo Scrittore prese a descrivere dei pensieri frammentati che gli passavano per la testa, e poi descrisse il bicchiere, ancora, e la stanza, e la luce nel bicchiere, e i suoi pensieri di nuovo, e la sua angoscia. Alla fine Apollo era scomparso e rimanevano solo lui e il bicchiere di quel rum schifoso, aveva ragione il dio, faceva proprio schifo, sapeva di autocommiserazione.
E allora si bevve il rum e appoggiò il bicchiere e andò a prepararsi il pranzo.
“Questo mestiere è troppo difficile per me” disse lo Scrittore di Storie Brevi.
(@ET 2013)
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