sabato 13 marzo 2010

Train de vie (un omaggio al Tergeste)

Quando ti metti a parlare di viaggi ne parli sempre al passato. Indicativo imperetto, passato prossimo, passato remoto, qualche volta il presente ma perlopiù si tratta di presente storico. Viaggi reali che punzonano da qualche parte la freccia del tempo. Questo invece è un viaggio ipotetico.

Se fossi stata assunta (congiuntivo trapassato) al mio posto di lavoro a Padova, avrei trascorso (condizionale passato) la primavera scivolando (gerundio presente) su e giù lungo la costa adriatica su un treno notturno. Tergeste, si chiama; è il nome latino della città di Trieste, quella stessa città che nei cartelli sloveni d'oltre confine si fa chiamare TRST, fatto che a me ha sempre ricordato un codice fiscale.
Il Tergeste è un vecchio treno che ogni sera parte da Trieste e rotola giù fino a Lecce, mentre il suo gemello, negli stessi orari, si inerpica dal dolce Salento fino alle raffiche di bora che sferzarono prima Italo Svevo e Umberto Saba e poi Susanna Tamaro, ahimè.
E' sempre pieno. Valige da incastrare sotto le cuccette, cappotti che potrebbero sopperire alla mancanza di coperte, se mai ce ne fosse bisogno. Nell'Intercity notte Tergeste fa sempre un caldo inumano, però. Soprattutto nelle carrozze cuccetta, ben più stipate dei vagoni letto.

Dunque, il vagone letto... vetture classe 1988, c'era ancora il Muro in piedi, locali angusti e scuri il cui odore si è talmente stratificato negli anni che potresti tranquillamente disegnarlo come una carta geografica. Un'intimità ferina col tuo compagno di viaggio, siete due equilibristi che si strusciano e si sfiorano, il treno sussulta, sembra quasi di sentire Gainsbourg cantare; dormite a tratti su queste note sferragliando insieme fino al mattino successivo, in cui un garbato controllore passerà a svegliarvi portandovi il caffé e una copia di Repubblica: edizione di Bari per chi scende, edizione di Bologna per chi sale.
Alle cuccette bisogna dare atto di essere più nuove: nel 1988 gli scompartimenti contavano ancora sei cubicolosi posti letto, scomode cucce a tre piani per parte, brandine di finta pelle marrone e biancheria di carta di riso; ora i posti si sono ridotti a quattro e hanno preso la denominazione "C4 Comfort", per coccolare i passeggeri almeno con le parole. Letti stretti ma lenzuola vere, a sacco, bollite e imbustate ad ogni viaggio, e ciabattine a velo tarate per piedi piccoli. Gli scomparti son divisi per sesso: solo donne, o dormitorio promiscuo. Chi s'incontra, s'incontra. Studenti in trasferta, tanti. Anziani tappezzati di padri pii in viaggio per qualche ospedale del nord. Lavoratori che tornano a trovare le famiglie. Io che mi imbozzolo nel sacco di lenzuola, perché non riesco a dormire bene se devo stare ferma come una salma e quindi tento penosamente di rigirarmi senza cadere giù.

Delle volte ti svegli nel cuore della notte e ti chiedi dove sei. Immagini di essere su uno di quei treni che fanno la fortuna dell'immaginario collettivo: la Transiberiana, l'Orient express senza annesso omicidio, al più la Malle des Indes perché oltre che per passeggeri era un treno postale, e sai che bello essere una lettera in viaggio per il mondo, scritta da chissà chi e in attesa di essere letta; invece sei sul Tergeste ma fa lo stesso, uno non è che deve essere sempre così provinciale. Guardi fuori e se ti va bene vedi un pezzo di mare. A Rimini ci passi mentre fuori è tutto nero, e non ci sono né i gelati né le bandiere della canzone di De André: solo palazzi biancastri e dei pini marittimi. Quando il sonno ti impiastriccia le percezioni non capisci se sei a Pesaro, Ancona, o già in Abruzzo. Tutto uniforme come le vacche notturne di Hegel. Senti solo il treno che ciabatta sui binari; a volte, lo scampanìo di un passaggio a livello, strizzato in tonalità diverse dall'effetto Doppler. Il chiarore del giorno filtra dalle tendine dopo il Po, per chi sale, e dopo Foggia, per chi scende. In mezzo potrebbe esserci qualsiasi cosa, così a me piace pensare che ci sia un viaggio immaginario, uno di quelli in cui non è opportuno usare l'indicativo, ma bisogna invece districarsi in un'alchimia di periodi ipotetici e perifrastiche. Un miscuglio bislacco tra un viaggio e un sogno, da non prendere mai troppo sul serio.

Ecco, se fossi stata assunta (congiuntivo trapassato) avrei trascorso (condizionale passato) parte della mia primavera in questo modo. Non essendo stata assunta (gerundio passato) salirò (indicativo futuro) sul Tergeste un'ultima volta, una delle sere venture, e poi lo lascerò a camminare da solo su e giù per la costa adriatica, senza di me.

Nessun commento:

Posta un commento