sabato 11 dicembre 2021

Le parole per dirlo

 Le parole per dirlo

Ho letto qualche tempo fa I racconti di Kolyma, lunga e dettagliata testimonianza resa da Varlam Šalamov ai quasi vent'anni da lui scontati, in due diverse condanne, nel sistema concentrazionario sovietico.
[Inciso: è sempre interessante confrontare questi resoconti novecenteschi - Šalamov, Herling, Solženicyn... - con le Memorie di una casa morta di Dostoevskij per vedere la continuità e le differenze tra le pratiche carcerarie e inquisitorie zariste e quelle staliniane]
A parte qualche caso di fucilazione, nei gulag si moriva principalmente di tre cose: fame, fatica e freddo, spesso in combinazione. E però, per molti anni, ai medici che redigevano i certificati di morte non fu concesso scrivere che il detenuto era morto di fame: dovevano quindi inventarsi collassi, carenze, deficienze, cedimenti, forse qualcuno avrebbe cavillato sul fatto se erano morti con fame o per fame, insomma tutta una serie di contingenze successive pur di tacere la parola incriminata.
Fu solamente dopo l'assedio di Leningrado, quando ormai morivano di fame anche i cittadini liberi - liberi per modo di dire, nella Leningrado assediata - che ai prigionieri sovietici, fossero o meno nemici del popolo, fu permesso di morire senza circonlocuzioni burocratiche, con una formula che richiamava una "distrofia alimentare" ma che finalmente voleva dire solo quello: fame, appunto. Ché nelle dittature è ancor più vero che altrove che chi controlla la lingua - Klemperer docet - controlla la realtà: almeno fino a che la realtà non ti scappa fuori da tutte le parti, come è suo vizio fare.

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