domenica 6 maggio 2012

L'Inferno del Trota

Terzine dantesche sul feroce contrappasso subìto dal Trota, costretto a mendicare una laurea in Albania.



Quale all’Adriatico dal Monviso
scorre ‘l gran fiume nell’ampia pianura
 ch’è detta de’ Padani il Paradiso

pur se l’ambiente s’è fatto lordura
e pur gli umani, copertisi d’onte,
 lesta l’indaga solerte procura;

tal è quel fiume ch’altrove ha la fonte
e porta agli inferi l’anime prave:
tutti lo dicono ‘l fiume Acheronte.

Quivi s’appresta - cagion gli sia grave
peccar d’abuso, ben degno di nota -
un giovinetto ch’attende la nave;

e a lui Caronte, d’in fondo alla mota
chiede chi sia, che faccia qui adesso.
“Sì mi conosci, mi chiamano il Trota”

dice il fanciullo, lo sguardo perplesso.
“Ancor sei quivi? Di nuovo all’esame?
Già son tre volte che torni d’appresso!”

urla Caronte, facendone strame.
Trota avvilito stavolta singulta:
“Or m’han cacciato dal sacro reame

ove Region si ministra e consulta!
Dicono: va’, giù nell’Ade profondo,
chiedi a’ demonii qual sia la tua multa;

più non tornare nel tuo chiaro mondo
ove s’evade l’italico conio”
“Dirà Minosse, o cor tremebondo,

ove espierai, rimpiangendo Gemonio:
tosto tu scendi, lo trovi, gli parla”
crudo risponde Caròn il dimonio.

“Misero sono, non posso scamparla,
mai che a qualcosa studiar mi sia valso”
geme il fanciullo, ormai non più ciarla

del gran poter di cui molto s’è avvalso.
Lento e sconfitto è già al cerchio primo;
scorge il destino, e lacrima salso.

Giudice d’anime ed eterno nell’imo
quivi è Minòs, che di spire s’avvolge:
“Viene, ragazzo, che tosto ti stimo”.

Poi lo condanna: “Che sian Malebolge!
E la cagion è quant’ora racconto
sì che il tuo petto più ancor si sconvolge”

Ringhia e rimembra qual mai fu l’affronto
che il giovin fece alla Somma Sapienza
pagando a dei foresti un greve conto:

danari non suoi, che pure non fu senza,
per dar sembianza d’avere intelletto,
di non mancar virtute e canoscenza,

dell’arte ch'è del trivio aver concetto.
Nel regno d’Epiro segrete cose
e molte ben degne d’ogni sospetto

accadono a chi cieco ripose
speranze d’una facile vittoria;
tosto si cambiano in più vergognose

e cadon nel dolor di falsa gloria:
sì fu per Pirro, già re dei Molossi
che d’amara pigion, dice la storia,

pagò i suoi trionfi presto rimossi;
e tal fu sapienza avuta di frodo
in altro bel sito da Renzo Bossi.

Poi che s'ingegna dell’antico modo
di stornar l'ignoto argento agli Elveti
di lì lo si riprese, grasso e sodo

sfruttando dei preposti prosseneti.
Comune fu l’usanza ai Longobardi
(sì facea ‘l governator coi suoi preti)

di giocar lietamente coi miliardi
pur se del volgo; e non fia una chimera
vederne in volto sorrisi beffardi:

pari è l’uso d’italica maniera.
Usi così a puttaneggiar coi regi
i suoi sodali, s’è detto, una sera

spartiti ch’ebbero i loro collegi
al giovin procuraron senza indugio
nobil sigillo che, teste di pregi

e pure di scienza, fia di rifugio
per l’ignoranza e per il non studiare.
Ed elli approva quel gran sotterfugio

che a paradosso si rese compare:
odiavan certo quei nordici pravi
genti in ambasce sfuggite pel mare

e poi costrette a ricatti ed aggravi
per la miseria di lor condizione.
Eran d’Africa, d’Oriente, poi Slavi

o dell’italico ancor Meridione.
Ed egli a spregio d’antichi rancori
 oppur bramando la lor compassione

trovò nel piano qual soccorritori
gli stessi che spacciava un dì per ladri
col padre urlando: “andate di fuori!”

Non sol, per dire poi che non s’inquadri
questa vicenda nel senso meschino
che vorrem degna di lazzi leggiadri

oltre che d’onta per moral declino,
dirò, e Minosse per ben s’è avvisto,
che ‘l giovin risultò da clandestino

poiché scordò d’obliterare il visto.
Quanto infame è mai tal contrappasso!
Commina Minòs all’animo tristo

decima bolgia: “Tu scendi nel basso
ove patisce chi falsa moneta,
 e fesso è da febbri fin al collasso,

o chi falsò se stesso e mosse a pieta
ignari che l’accolser qual fratello.
 Mentre tu vai, già ad un altro profeta

credon le genti; ‘l medesmo randello
brandendo contra i principi rissosi
 e gridando or per questo ed or per quello

vanno agitando qual cani rabbiosi.
Essi han bisogno d’un avventuriero:
 presto si fanno più aspri ed irosi

e fuori traggono l’animo nero;
pensi che quando sarai nell’abisso
 un altro non vorranno condottiero?”

Così dice Minosse e guarda fisso
il giovin Trota che’l teme e l’implora
 di non venire nell’imo confisso.

Negando lo dispera e dice: “Ora
vengo alla pena che t'è comminata.
 Tosto che sorga la prossima aurora

ti troverai giù per questa scarpata
in una valle d’armenti infiniti.
 Esse son vacche; mandriano, le guata

un gran dimonio dagli occhi ammattiti.
L’aiuterai e gli starai d’attorno
 acché gli armenti risultin puliti.

Sarai tra valli più calde d’un forno
finché vien Cristo a spartire le genti
 nel suo secondo ed eterno ritorno.

Spalar letame son gravi tormenti:
bada, fanciullo, che i buoi siano netti!
 Tu che hai gabbato gli onesti studenti

e per famiglia che sei tra gli eletti,
bovini alloggi ben colmin le falle
tue e di tua fosca congrega d’inetti!”

E mandò il Trota a ripulir le stalle.

2 commenti:

  1. Grande, grandissima Elena!

    Però mi scoccia un pò arrivare sempre secondo.
    Sempre dietro lo stesso.... Grrrrr. :-)

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