Nuvole grigie si acquattavano nel cielo d’un giorno del tardo Giurassico. Sperduto fra tempestose cime, il sauropode brucava meditabondo, sporgendo il lungo collo e immergendolo tanto nelle brume quanto in una ostinata solitudine. La coda, anch’essa lunga, si bagnava sconsolata di rugiada fredda.
Troppi pensieri lo tormentavano: lacerato dalla gelosia e dal desiderio di vendetta, non appena socchiudeva gli occhi lo assaliva l’incubo di quella giovane che bussava disperatamente alla finestra e che ora, chissà, non lo vedeva che come un essere rozzo e ignorante. Era stato amore? O che altra passione? Un odio, un mero dominio? Una lotta inutile per una vita presa in prestito? O amore, s’era detto? Amore...
Artigliò il terreno come se avesse potuto afferrarvi dentro un’anima.
La disperazione gli mordeva la carne; e quel dolore, che nemmeno l’alcol mediocre comprato coi soldi e col rancore avrebbe mai lenito, gli squassava i nervi.
Solo il silenzio straziante della brughiera rispondeva ai suoi pensieri; e in quel silenzio vagavano spettri mai del tutto consumati dalle passioni e dal tempo.
L’animale sospirò. “Questa è la mia storia, questa la mia maledizione.”
Egli infatti era un Brontësauro.
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